sabato 15 dicembre 2007

lE lUcI bIaNcHe DeLlA nOtTe


Non vuole dire niente.
E’ una canzone.
Così come quel nome se collegato a quel viso, esprime sensazioni.
Ma poi.
Poi ritorna ad essere un nome soltanto, un suono senza fisionomia.
Il niente è niente.
Fino a che ti riempie.
E il tutto diventa niente.
E il niente diventa tutto.


“Sai cosa vuol dire il tempo che passa, Erika?”
Una domanda a bassa voce, mentre ti sciacquo capelli e pensieri.
“No!”
Una risposta ad alto volume, per sovrastare il rumore del getto che leva il sapone.

Tu non capisci mai il cazzo! Cristallizzata nei tuoi pochi anni che compi uguali da tutta una vita.
La bella addormentata nel suo merdosissimo bosco. C’era appena-appena il sole e tuo padre sorrideva con dei denti bianchissimi e brillanti, illuminato appena-appena da ventagli di morbidi raggi. Splendeva ogni filo d’erba, perfetto: carico di una sola goccia di rugiada incastonata appositamente da una mano divina.Ascoltami, ascoltami: era una poesia, quella mattina. Le narici pizzicate da una frescura che disseta come acqua brillante: il gusto di settembre da ingoiare appagandosi. Il resto era ordinato. Nel quadro perfetto della famiglia perfetta mancava unicamente una didascalia, il resto no: il resto c’era tutto. La macchina lucida da autolavaggio, il mio copione da madre con un grembiale profumato d’ammorbidente alla vaniglia, il rumore della porta che si apre e si richiude lasciandoci allegri-festosi-incoscienti sul palco di quel fazzoletto di giardino della nostra casetta, indipendente su tre lati. Dentro, fermi con il fiato sospeso, gli oggetti del buongiorno: le note smorzate dai muri di una radio che suonava tra le tazze semivuote del caffellatte, l’aroma di caffè sui vetri appannati, lo specchio con due gocce spruzzate dallo spazzolino. Ecco. Da lì si deve essere sparsa, l’imperfezione. Avessimo sistemato quell’angolo macchiato, asciugato il lavandino alonato a chiazze. Invece. Lo sbaglio a cui il destino s’è abbarbicato. E la sfortuna scova l’errore e, da quel punto, si dilata a macchia d’olio. Come si dice. La musica è scivolata fino a me: “Tutta mia la città, un deserto che conosco…”
E ascoltami,Erika! Il mondo si è fermato come il blocco immagine di un videoregistratore bislacco: una riga al centro dello schermo, a far tremare il fotogramma più bello. La cartella rossa con le pecorelle disegnate s’è piegata all’indietro, troppo in basso, anche per chi –come te- stava ridendo e giocando a volteggiare, con un padre che t’aveva trasformata in aeroplano. Un padre ancora felice; un padre ignaro perché, mosso dalla risata che gli chiudeva gli occhi, non ha visto il cielo diventare nero. Improvvisamente. Io sì, io l’ho guardato.E ho spalancato la bocca su quel panorama come di catastrofe: le tessere del puzzle son cadute e tutto, tutto il chiaro è diventato scuro, il bello brutto, il leggero pesante. Mentre gridavo il tuo nome e tu- a terra, burattino, mio povero burattino -a sbavare schiuma e contorcerti in mezzo all’odore forte di feci e urina. Sei morta in quel momento. Noi con te. Sei andata via con il suono della sirena. Al posto tuo una caricatura: una grottesca bambina con i polsi spezzati e gli occhi che guardano di lato. Un orsetto di pezza senza l’imbottitura.



“Il tempo che passa è quest’acqua che scende!” mi rispondo per non sentirmi sola.
“Ancora?”mi domandi senza senso, leccandomi una guancia.Come un cane.
E io ti accarezzo come fossi un cucciolo.

Non vuole dire niente.
E’ una canzone.
Così come quel nome se collegato a quel viso, esprime sensazioni.
Ma poi.
Poi ritorna ad essere un nome soltanto, un suono senza fisionomia.
Il niente è niente.
Fino a che ti riempie.
E il tutto diventa niente.
E il niente diventa tutto.

venerdì 12 ottobre 2007

NoI pUfFi SiAm CoSì


C’è un grande armadio, chiuso.
Stammi ad ascoltare, Gesù Benedetto Santo e Buono.
C’è un grande armadio, chiuso.
Porca di una troia e puttana lurida e bagascia.
Queste parole mi colano fuori dai pensieri: marcate, a fuoco, dentro alle orecchie.
Ho due occhi grandi da cane.
Due occhi enormi con le ciglia lunghe.
Stammi ad ascoltare, Gesù Benedetto Santo e Buono.
Perdonali per ciò che dicono e pensano e dico e penso: porca di una troia e puttana lurida e bagascia.
Sull’anta di quel mobile serrato ci sta appiccicato uno specchio con dentro il mondo: il muro foderato spesso di carta a fiori viola e rossi, la Madonna col Bambino che tiene le braccia a conca cariche di riccioli d’oro, il comodino con l’abat-jour-finta-candela, la testata del letto matrimoniale in ferro battuto.
Seguo con gli occhi proprio il metallo a cui sono appoggiati i cuscini, fodere rosa spiegazzate e stanche di pensieri: foglie rigide e finte, a disegnare ombre sul copriletto raggrumato al centro.
Su quel grumo: io.
Dentro a me stesso un sapore forte di cuore che batte forte.
Lo sento sul palato: è gusto di paura.
Puttana di una troia.
Mi esplode il petto.
Puttana lurida.
Sento che arriva.
Bagascia.
Saliva calda che si apposta sulla lingua, sangue che pulsa contro alle tempie, polsi doloranti che scricchiolano da dentro.
Gattono fino al fondo del materasso e sto a fissarmi, dentro alla lastra che mi riflette: ho sette anni e devo star tranquillo, Gesù Benedetto Santo e Buono.
Ho sette anni e mi fisso mentre mi fisso, con quei due occhi grandi da cane.
Vorrei chiamare ma, dall’altra stanza, arrivano parole che conosco bene.
Allora mi sorrido e mi guardo rispondere al sorriso.
Poi casco ad arti all’aria, come uno scarafaggio sulla corazza: porca di una troia e puttana lurida e bagascia.
La schiuma ai lati delle labbra è spessa ed insapore.
Prima di voltare gli occhi all’indietro prego Gesù, ancora, Benedetto Santo e Buono.

Winnie the Pooh appare saltellando fin sulla mia pancia: boing-boing.
Rimbalzo di riflesso anch’ io, con una risata a scatti: finalmente da bambino.
“Cheffai?” mi chiede l’orso, con una zampa sulla maglietta rossa e l’altra a sfregazzare il mento, l’espressione stupita.
“Niente!” rispondo, “La solita crisi!”
Dragon Ball mi spunta, in modo brusco e statuario, sopra la testa.
Le braccia tese a scaldarmi di onde energetiche, le gambe larghe per cercare di non perdere equilibrio e reputazione: “Fatti coraggio!” mi urla quasi, “Fatti coraggio!” ripete abbassando testa e sguardo sul mio corpo che freme delle convulsioni rapide come scariche continue.
“Non credi di dover chiamare la tua mamma?” e la voce arriva da verso il lampadario.
E’ un pesce pagliaccio che nuota nell’aria.
“Lasciamo perdere. Adesso sta discutendo con papà. Pensi le piacerebbe essere disturbata per venir qui a guardarmi mentre mi piscio addosso?”


E poi?
E poi mia nonna.
Mia nonna compare sulla soglia: grassa e bassa, con il vestito a piccoli fiori azzurri di sempre, il grembiale a scacchi marroni legato molle alla vita.
“Matteo, Matteo! Sempre a farmi preoccupare!”
E mi rassereno, mi rassereno un casino.
Mi rassereno mentre la guardo e ne sento il profumo di colonia antica.
Mi rassereno e aspetto che si avvicini: cammina quasi volando, a dieci centimetri da terra, mentre il pavimento è carico di puffi festanti che emettono strani versi.
Vedo ognuno sforzando il collo verso il basso e rialzandolo per dire a quell’aroma di persona che mi ama che è contraccambiata.
Ma le figure di tutti sfocano e lasciano soltanto suoni e rumori, borbottii e cantilene.
Piccole canzoncine da bambini. Trullallà-trullallà.
E tac: la luce, quella grande, si accende.
Via tutto: Winnie, Dragon, Nemo, nonna…mi senti? Mi senti?

Quando le scosse si chetano mi ritrovo coricato come un vitello: le quattro zampe unite da una ipotetica fune.
Mia madre mi accarezza la fronte con una pezzuolina umida.
Io penso alle bestemmie che sanno uscire da quella bocca, lei ripete che ormai è passata e che non serve a niente aver paura.
Io dico nella testa, senza la voce, che Gesù m’ha salvato un’altra volta.
Gesù Benedetto Santo e Buono.
Poi entra papà e, ai piedi del letto, sgrana un paio di bestemmie contro la malattia che mi rende diverso.
Perdona ciò che dice e pensa, m’immagino.
Perdona lui.
E me.

martedì 9 ottobre 2007

qUaLsIaSi CoSa CeRcHi Di ScRiVeRe

di ITALO CALVINO*



Qualsiasi cosa cerchi di scrivere per esprimere la mia ammirazione per Ernesto Che Guevara, per come visse e per come morì, mi pare fuori tono. Sento la sua risata che mi risponde, piena d'ironia e di commiserazione. Io sono qui, seduto nel mio studio, tra i miei libri, nella finta pace e finta prosperità dell'Europa, dedico un breve intervallo del mio lavoro a scrivere, senza alcun rischio, d'un uomo che ha voluto assumersi tutti i rischi, che non ha accettato la finzione d'una pace provvisoria, un uomo che chiedeva a sè e agli altri il massimo spirito di sacrificio, convinto che ogni risparmio di sacrifici oggi si pagherà domani con una somma di sacrifici ancor maggiori,
Guevara è per noi questo richiamo alla gravità assoluta di tutto ciò che riguarda la rivoluzione e l'avvenire del mondo, questa critica radicale a ogni gesto che serva soltanto a mettere a posto le nostre coscienze.In questo senso egli resterà al centro delle nostre discussioni e dei nostri pensieri, così ieri da vivo come oggi da morto. E' una presenza che non chiede a noi né consensi superficiali né atti di omaggio formali; essi equivarrebbero a misconoscere, a minimizzare l'estremo rigore della sua lezione. La "linea del Che" esige molto dagli uomini; esige molto sia come metodo di lotta sia come prospettiva della società che deve nascere dalla lotta. Di fronte a tanta coerenza e coraggio nel portare alle ultime conseguenze un pensiero e una vita, mostriamoci innanzitutto modesti e sinceri, coscienti di quello che la "linea del Che" vuol dire -una trasformazione radicale non solo della società ma della "natura umana", a cominciare da noi stessi- e coscienti di che cosa ci separa dal metterla in pratica.
La discussione di Guevara con tutti quelli che lo avvicinarono, la lunga discussione che per la sua non lunga vita (discussione-azione, discussione senz'abbandonare mai il fucile), non sarà interrotta dalla morte, continuerà ad allagarsi. Anche per un interlocutore occasionale e sconosciuto (come potevo esser io, in un gruppo d'invitati, un pomeriggio del 1964, nel suo ufficio del Ministero dell'Industria) il suo incontro non poteva restare un episodio marginale. Le discussioni che contano sono quelle che che continuano poi silenziosamente, nel pensiero. Nella mia mente la discussione col Che è continuata per tutti questi anni, e più il tempo passava più lui aveva ragione.Anche adesso, morendo nel mettere in moto una lotta che non si fermerà, egli continua ad avere sempre ragione.
ottobre 1967

Che Guevara fu ucciso in Bolivia il 9 ottobre 1967, e il suddetto testo di Italo Calvino fu scritto il 15 ottobre 1967 a Parigi (dove da alcuni mesi abitava con la moglie argentina: era il giorno del suo 44° compleanno). Esso fu pubblicato in spagnolo nel gennaio 1968 sulla rivista cubana "Casa de las Americas" (in un numero speciale tutto dedicato al "Che"). Invece il testo originale integrale italiano fu pubblicato in Italia solamente 30 anni dopo, nel 1998, sul numero 1 della rivista "Che" della Fondazione Italiana Ernesto Guevara presieduta da Roberto Massari (con sede ad Aquapendente, nel Lazio).

giovedì 4 ottobre 2007

"Spara dunque, codardo"


Mia madre, il nove ottobre, comperò un carillon.
Lo appese alla testata del lettino e fece in modo, girandone la chiavetta, che le piccole api colorate della Chicco mi salutassero, tra ondeggiamenti e cantilena.
Mia madre, il nove ottobre, discostò le tende nappate e fresche, lasciando entrare una luce gialla ed artefatta che illuminò i miei piedini tozzi.
Guardò giù, appiccicando guance e naso ai vetri immacolati.
Io mossi gli arti nel vuoto, come annaspando: forse avevo fame ma forse decisi di aspettare un momento più propizio per disperarmi e urlare.
Quando la stoffa si riabbassò sulle finestre, tornò un’ombra quieta, buccia apparente d’una giornata nefasta.
Così, al posto del chiarore, un sibilo di radio inondò l’intera stanza.
Tutto il mondo.
Il soffitto un cielo e il pavimento terra, i tappetini mare e le pattine della cera zattere.
Oggetti e soprammobili come abitanti del globo, intorno: la sveglia con i numeri fluorescenti, il portafoto con il picco dell’anguille noire ricordo d’estate, la spazzola morbida sul ripiano del comò,
la petineusse su cui spiccava il rosa delle mie fasce, il contenitore del borotalco ed il piumino pizzicato sotto al coperchio, il lampadario a gocce.
Profumo di lavanda tra le lenzuola piccole ed il copriletto dorato grande.
E il sibilo divenne voce.

“…La versione più accreditata racconta come Guevara abbia ricevuto diversi spari alle gambe, sia per evitare di deturpargli il volto sia per ostacolare l'identificazione…”


Mia madre, il nove ottobre, sedette stanca con le mani in grembo.
Ascoltò il mio vagito coprire ogni altro suono e mi issò, trattenendomi come un fagotto: trofeo elevato sopra la sua testa.
Mia madre, il nove ottobre, mi allattò piangendo e al suono di una poesia salvadorena, regalatami come nenia, mi addormentai per prima.


Allora la vecchia mi disse:
“Guarda questa rosa secca
che un giorno fu incantata
dallo sfarzo della sua stagione;
il tempo che sbriciola anche altissime mura
non priverà questo libro della sua saggezza.
In questi petali secchi c’è più filosofia
di quella che può darti la tua saggia biblioteca;
essa sulle mie labbra pone la magica armonia
con cui sul fuso incarno i sogni della mia rocca.”
“Sei una fata”, le dissi. “Sono una fata”, mi disse,
“e celebro l’esultanza della primavera,
donando vita e volo a queste foglie di rosa.”
Si trasformò in una principessa profumata
e nell’aria sottile, dalle dita della fata
volò la rosa secca come una farfalla.
Rubén Darío


Poi anche lei chiuse gli occhi gonfi.
Ed il silenzio diventò preghiera.
Era il 1967.

sabato 15 settembre 2007

dEnTi Da LaTtE



“Il tempo lascia certi segni sulla pelle!”

Veronika accavalla le gambe e, con la mano mollemente poggiata sul ginocchio, scuote con uno scatto il capo: i capelli si muovono compatti, morbidi e profumati.

Che cosa non funzioni nella sua vita glielo domando abbassando lo sguardo sui fogli che ho davanti, nascondendo un sorriso che potrebbe offenderla.
“Tutto!” risponde, “I figli mi fanno impazzire, il lavoro è uno schifo, i colleghi dei bastardi!” e stringe le labbra, facendo una boccuccia a cuore piccola come un’unghia del mignolo.

Che cosa intenda glielo chiedo guardandola da sopra gli occhiali, muovendo la penna per regalarmi un’aria professionale e donarle un clima ufficiale.
“Intendo che i miei figli non mi capiscono: forse solo la piccola (è tanto carina, quella!) ma i grandi! I grandi sono disordinati, sporchi ed ignoranti! Vede, dottore: io vengo da lei per sfogarmi delle cose che non vanno! Le dicevo del lavoro: io vengo da lei per dirle che sono molto bella, molto intelligente e molto brava. Eppure! Eppure al lavoro nessuno, nessuno lo capisce! Le dicevo dei colleghi: io vengo da lei per dirle che sono tutti cattivi e pettegoli! Pettegolissimi!”

Veronika scioglie le gambe e, con la mano sensualmente appoggiata dietro la nuca, mostra un sorriso indisponente, larghissimo e precario.
“Solo lui! Lui solo mi capisce!”
Domando muto, solamente con un interrogativo di sopraccigli alzati.
La risposta è un canto civettuolo.
“Che amore! Mi bacia sulle scale e nel salotto: preme le sue labbra sulle mie labbra e mi abbraccia forte. L’ho raccontato alla mia amica Betta: le emozioni che è capace di regalarmi quell’uomo sono indescrivibili! Anche la mia bimba ci ha visti, senza farlo apposta: mentre lui mi alzava la gonna e accarezzava sotto-sotto e allora io l’ho scoperta e le ho urlato “Cosa fai? Mi spii?” e le sono corsa dietro e sciaff e sciaff, due belle sberle sul culo…”
Il silenzio dura un secondo: “Ho detto culo: non volevo!”
Che non importa è una frase che pronuncio a bassa voce, sorridendo rincuorante.
Poi le chiedo come sia il comportamento di suo marito.

Rimane a fissarmi, zitta e immobile, per otto minuti e mezzo.
Alla fine di quell’eternità salta giù dalla sedia e ha di nuovo nove anni: “Papà non dice mai una parola. Ora posso andare di là e leggere un Topolino, fino a che non mi vengono a riprendere?”
“Vai pure: ci rivediamo la prossima settimana”


“Il tempo è implocabile, dottore!”
“Si dice implacabile, Veronika, si dice implacabile” ma già non mi ascolta e, uscendo dallo studio, canticchia una canzone da cartoni animati.

giovedì 19 luglio 2007

sPeCcHiO rIfLeSsO

Ora che mi guardi, con quegli occhi chiari: cicatrizzati e asciutti i solchi lasciati dalle lacrime.
Ora che mi parli: muta ad urlare solo quello sguardo.
Ora che mi tocchi: lo spazio di più passi, ad affettare minuti lunghi come lance.
Un tremito ti vibra dentro e io lo sento in gola.
Un tic spaventato singhiozza nei pensieri ed io lo fermo con le tempie.
Una botta alle tue spalle: come qualcuno che mi inviti a muovere, con colpi sgraziati e sgarbati e grossolani, quest’ammasso di corpo maleodorante verso i tuoi profumati scintillii da pelle sudata.
Succede a te: lo intendo io!
Amplificato ogni dolore: rimbalza tramortendomi.
Sei una bambina: hai unito le dita, intrecciandole per gioco.
Pam: specchio riflesso. E le falangi m’han scricchiolato addosso impunemente il male.
Eccoci innanzi: fantocci deboli e rapiti.
Innamorati e fragili.
Tramortiti, inebetiti, ipnotizzati, sedotti, avviluppati da questo senso.
Abbasso le spalle per dichiararmi sconfitto: gli occhi planano sulla punta delle scarpe, là, in fondo, lontanissimi.
Ho un corpo che si srotola in autostrada: graffiti delle gomme come ricordi e la pelle asfalto in cui s’incidono il quindici d’agosto.

Immaginavo il contatto, stringendo l’inguine in una voglia sola: quella che trasformava le altre volontà in sconcissime genuflessioni.
Leccavo pensieri pulsanti come un taglio aperto e sanguinante sotto il sole: febbre e delirio, concitazione e sogno.
Agognavo penetrazione e possesso, bramando staticità esterna e libera gioia.
Avevo fame ma era la tua carne a divorarmi d’aquolina: avrei ingoiato il dentro delle cosce, le fosse delle ascelle, zigomi e collo, orbite, lobi e denti e peli. Tutto, in qualche sempiterno istante: immacolata e compulsiva deglutizione fallica.
Indescrivibile ed infinito orgasmo.

A-iu-to.
Ci deve essere qualcosa che si possa fare per impedire l’inevitabile.
Manca l’ossigeno se la tua immagine mi arriva pure a palpebre serrate.
Il più vivido e presente dei ricordi.
Ecco i capelli, morbidi e sfrenati: un aroma che fa saltare natiche e cuore, simultaneamente, in scatto di gioia e desiderio.
Un’onda di piacere puro, solletico e languore, al centro della lingua che schiocca sul palato: a disegnare il contorno della tua mousse di labbra.
Respiro quell’aria di narici da bambola, infilando la punta del mio naso in ogni anfratto che voglia accogliermi.
Non dirmi sciocco se disperato ripeto solo grazie dopo l’incontro senza nome.
Vorrei, semplice, allargarmi per contenerti tutta mentre sospiri di sollievo e farti piccola, perché la vista della tua anima non debba mai mancarmi.
Non dirmi sciocco se nemmeno avrei sperato ma, continuando a sperare, ho consumato anni.
Vigliacco sì, nella paura del terrore.
Ora.

Gli stessi pensieri ballavano sulle spalle minute, incorniciavano sorrisi larghi e trattenevano nei ricci risate forti e sicure.
Era una scia che ricordava la sicurezza dell’affetto cui potersi poggiare: stampella solida nei sentimenti claudicanti e puri.
Riempiva spazi e dilatava tempi, quell’essere miracoloso: reso mitico e perfetto e unico dall’assenza.
Perché piccino ero e minuscolo diventavo con l’allontanarsi di quella gonna ondeggiante intorno al nulla.
Fino allo sparire dell’orlo, come la striscia che divide mare e cielo: lasciando unicamente quel niente evidenziato.
Una musica che sbiadisce, un colore che perde volume.
Come passi di danza andanti a morire, battiti di mano che non sono applausi.
La recita è finita: un unico spettatore pagante il monologo tragico della scomparsa.
E l’attore, senza concedere bis, scappa con l’incasso.



Mia madre: sapeva correre.
Ho chiesto scusa, un secolo di suppliche.

Per le unghie nere sotto e le ginocchia scorticate dalla disattenzione, i piatti rotti ed i ripiani rigati da matite colorate, la polvere nascosta dal tappeto e le mutande sporche dietro, i ritardi non annunciati e i voti bassi strappati dal diario, le corse in moto senza casco ed il mutismo davanti alla tv, i peli della barba lasciati nel lavabo e il water dimenticato aperto.

Pacche sulla spalla: da un uomo abbandonato seduto in bilico sul dito di un bambino lasciato solo.
Mai quella voce femmina che regalasse il perdono.
Mia madre: sapeva correre.


Ora.
Lentamente mi volto.
E cedo.
Lascio prima di venir lasciato ancora.
Muoio: decido di uccidermi per non venire assassinato.
Perché il sentirmi indegno è un mostro chiuso nell’armadio e la salvezza l’ interruttore, posto dall’altro lato della stanza. Buia.
Siamo di nuovo piccoli ma è finito il gioco.
Mi chiedi se è uno scherzo giurando eterna quella voce e il resto: diventa serio e distantissimo l’addio.
Ho chiesto scusa non posso perdonare: la tua colpa è fatta di me che ti amo a questo modo.

Così ho corso: anch’io.

martedì 26 giugno 2007

EmMa

Ho curato la tua pelle
con unguenti speciali.

Immaginandoti
leggera e donna
morbida e scomposta
nel letto coniugale.

Sospiri
ora
soltanto per il dolore di una piaga
perché il decubito
è un prezzo alto pagato con il tuo vecchio portafogli.

Desiderandoti ritta
in piedi
spavalda in faccia al futuro
ho sezionato il tuo presente
soffrendo questo quotidiano che ci scruta:
me ancora giovane
e tu
legata su di una carrozzella a ruote.

Così ti ho spinta.

Un giorno
due
forse cento.

E quando hai scelto
senza poterlo fare
di non tremare oltre
su questa terra piatta
su questo sconcio globo
tua figlia mi ha guardata
e
il suo annuire
m’ha scorticato il cuore: “portala tu”.
Ancora.

Tra le mie mani.
Fino alle rose.
Sei scesa come sale
sui freschi pomodori.
In quel momento ho pianto
solo due lacrime.
Due solamente
ma grandi grandi e grandi.

Ho curato la tua pelle
Con unguenti speciali.

E ti ho portata spesso. E con me sempre: ti porto.


a colei che mi insegnò a non trattenere il fiato

domenica 3 giugno 2007

aNcHe TuTtA lA vItA

Di sicuro, ci sarà sempre chi guarderà solo la tecnica e si chiederà «come», mentre altri di natura più curiosa si chiederanno «perché» (Man Ray)


Laura si sporse verso il monitor, ravviando i capelli con la mano sinistra: la destra a tener stretto il mouse, come fossero le dita di lui a cui trasmettere affetto.
Laura si sporse verso il monitor e la stanza iniziò a profumare di festa: dalle finestre aperte, oltre al calore dell’estate intiepidito dall’ora tarda, s’infilarono conforto e compassione.
Le tende, appena mosse da un’anomala brezza, suonarono un fruscio rincuorante.
Il buio intorno si riempì di elettricità percependo le vibrazioni positive e allegre di cui gli occhi si riempirono.
Si ricollocò con la schiena tutta indietro: per assaporare una lettura lontana e distaccata.
Dosò con parsimonia ogni piccola goccia di piacere: un’ondata di calore che si dilatò nel petto e, arrivando alla gola, le tolse il respiro, scaldandole due guance ormai roventi.
Infine sorrise, alzò il mento imbarazzata e tenera: strinse le labbra in una smorfia dolce e di sollievo, aprendole con uno schiocco..
E lesse.
Prima a bassa voce.
Poi sillabando.
Ancora: con un tono più spavaldo.
Ti amo.
E la voce sbatté sulla scrivania e scivolò da quell’appartamento che la osservava sola, da anni: a mangiar minestre precotte e piccoli panini che seccavano sempre troppo in fretta.

Da quel momento: le dita si accavallarono a rispondere. Rapide come la sua gioia.

Anche io. Anche io ti amo. Vediamoci, ti prego. Vediamoci subito. Ho bisogno di te. Ho bisogno che tu mi veda. E non soltanto in foto. E ti aspetto.

Lo schermo rimase privo di parole, la chat sospesa: come il suo cuore.


Finalmente la risposta arrivò ad abbracciarla stretta.
Non sai quanta voglia ho io di te, dolce e tenera cerbiatta. Se vuoi sono subito lì.

La brevità del testo e la mielosità in quella stringatezza, non infastidirono il suo carattere duro e la scorza coriacea: era una licenza sentimentale, segnale dei tempi che stavano svoltando positivamente.
Così rispose: vieni. Ti aspetto alla finestra. E quando arrivi: sali.

E perché dovrei salire? -si dimostrò sorpreso
Per qualsiasi motivo- volle rassicurarlo
Faremo l’amore tutta la notte?- ebbe l’ardire di chiedere
Anche tutta la vita- ebbe l’ardire di rispondere

Laura si mise alla finestra ed aspettò.
All’una guardò l’orologio e considerò che erano tre mesi esatti che lo aveva conosciuto.
All’una e dieci si posizionò reggendo il mento sulle mani: di vedetta come un gatto alla finestra.
All’una e un quarto pensò che non fosse così brutta quell’attesa: foriera di passione.
All’una e venti un rumore crescente di rombi la raggiunse dal fondo della strada, salendo fino a lei.
All’una e ventitré il tuono delle moto si raggrumò come nugolo di vespe, sotto alla sua finestra.
All’una e ventiquattro le risate dal basso risalirono a schiaffeggiarla.
Lauraaaaaaaa? Ci sei? Sei pronta ad amarmi con passione? Vuoi dirmi che sei la mia troia?
Riconobbe Benatti della terza D, individuò Rastelli della seconda F, vide qualche faccia giovane e spavalda a cui non seppe assegnare un nome. Alunni, scolari del liceo in cui lei regalava di più di quanto le ordinasse la sua etica professionale, insegnando latino ed emozioni giuste. Con passione.
Sentì delle risate forti, ragazze cariche di allegria audace a raschiare il tessuto del suo cuore stranamente calmo.
Poi. Poi lo strepito sparì nel buio, da dove era venuto.
Allora lei indietreggiò fino al computer, posizionò una gamba ben distesa dietro l’altra e spiccò un salto, dopo una rapida ed elastica rincorsa.
Il quadrato della finestra la inghiottì.
Il tonfo fu sordo e privo di lamenti, sul selciato.Laura si addormentò in quella pozza, larga e sconveniente, fatta di lacrime e sangue.

venerdì 18 maggio 2007

tErRa BaTtUtA


E’ solo una mattina di fine ottobre: tipica e calda.
“Come si può, madre di Dio?” Tota parla alla sorella, Jessica, senza neanche guardarla, “Come si può, Santo Iddio: manca il cibo…” e intanto sminuzza , adoperando un grosso coltello da cucina, piccoli tocchi di cipolla in pezzetti ancora più microscopici, “…manca l’acqua. Manca il respiro: persino il respiro, Santa Immacolata Maria!” e il tagliere attutisce in un tonfo sordo il colpo veloce e preciso.

Il suo urlo attraversa la stanza e sbatte contro la porta semichiusa in legno, gonfia le stoffe dei tendoni a fiori, rimbalza nelle orecchie dei bambini e dei ragazzi, inseguendo il loro gioco d’aia: nello spiazzo polveroso, alzando gambe troppo secche e nuvole rosse, calciate da piedi scalzi e lerci.
“Jessica: è il momento, Santo Iddio!”
“Chitoo!” gonfiando le vene del collo, “sta per partorire: per la Madonna!” grida, emulando.
Vestito di tessuti stropicciati dal sonno e seguito da quel gruppo fanciullo, alito infantile intorno ad un’unica palla, Chito arriva di corsa.
Tota, piegata dai colpi nel ventre, cade inginocchiata. Nel suo campo visivo rimane il piccolo Rodrigo che, con metodo, continua a schivare gambe di sedie e tavolo.
La donna l’osserva mentre simula un cross: quando gli appare, come una visione ultraterrena, mentre alza le braccia al cielo, nell’esultanza di un fantomatico quanto immaginario goal, stringe gli occhi forti perché una contrazione, lunga e dolorosa, l’avvisa che sta per partorire.
Il bambino nascerà, invece, dodici ore più tardi: “Tu mi farai dannare!” la prima frase che la madre gli regalerà, baciandolo sulle labbra.
“Tu mi farai dannare!” gli ripete ancora, urlandoglielo dalla finestra dello stesso cucinotto umido e odoroso.
Ma il bimbo non l’ascolta: scivola sul selciato grezzo e gretto e sporco, con quella sfera che pare attaccata ai piedi.
Schiva Pedro che, combattendo le ossa vecchie, spinge la bicicletta, trainando un carretto carico di stoffe e cartoni.
Rimbalza contro Veronica che, magra e con le ossa sporgenti, stringe il sacchetto della spesa, riempito solo di patate.
Subito riprende a correre, muovendo il volto sotto quei riccioli, tutti annodati come i vagabondi, e alzando le mani, in segno di arresa: non volevo, starò più attento.
E Veronica scuote la testa: “Povera donna: la farà dannare!”
Allora giù per lo stradone, fino alla linea del treno: con quel rumore di rimbalzo ad annunciarlo.
E Hugo e Paolo a sbraitare -passa, passa, passa- ma quel pallone precede solo lui e lui soltanto.

Il camioncino di latta arrugginita arriva al passo sostenuto permesso dalla discesa, proprio mentre il dribblaggio lo estranea dal mondo: gli piomba sul fianco, facendolo sussultare come un fantoccio, sbattendolo due volte. Prima a terra e poi in aria.
“Tota!” stridono le imposte, “Tuo figlio: alle rotaie!”
E Tota corre e s’inciampa e corre ancora.
Quando lo raggiunge è un bambino più piccolo dei suoi sette anni, con un vistoso taglio sul ginocchio destro. Moccio, lacrime, terra e sangue a sporcargli la bocca e il mento.
Due occhi che chiedono di non esser sgridato per l’imprudenza.
“Tu mi farai dannare!”sorride chiudendoselo tra le braccia: lui e il gioco che tiene stretto.
Nel sole che sta tramontando il bambino chiede alla madre un bacio, promettendo di diventare un grande calciatore. Di diventare qualcuno.
“Tu sei già il mio ragazzo: il mio ragazzo d’oro!” è la frase che lo accarezza.
Il pallone ancora imprigionato: le gambe penzoloni, verso casa, con la ferita sul ginocchio pulsante e calda sotto un raggio tiepido di luce argentina.

Era il 1967: Diego Armando Maratona, con il volto abbandonato sulla spalla della madre, si addormentava sognando.

domenica 22 aprile 2007

fino a farti sparire

la fotografia è gentilmente concessa da http://digilander.libero.it/francescocoluccio/index.htm
un sito che vi invito con il cuore a visitare.

Torino è così, nel marzo di quest’anno scarno di sentimenti: umida e opaca.
Il cielo sembra trattenere uno starnuto, mentre il grigio colora anche i passi lenti e cadenzati.
Il viale alberato, dinanzi al liceo Massimo D’Azeglio, è una via solcata dalle formiche: gli studenti, che vi si muovono, piccoli insetti indolenziti dalla notte appena conclusa e dal freddo che filtra strafottente, anche attraverso le stoffe più spesse.
La quintaE si raduna in quattro o cinque gruppetti, al principio della complice scalinata in pietra: al suono della campanella è la prima a ricomporsi per riempire l’aula.
Benatti, detto Il Massimo, si ferma davanti alla cattedra, le braccia a mo’ di brocca, sui fianchi.
I ragazzi sono artificiosamente silenziosi.
Lui ha nella mano sinistra un barattolo di vernice, in quell’altra un pennello di setole spesse, lungo e consumato nell’impugnatura: “Siete pronti?”, un brusio d’assenso lo raggiunge, più veloce dell’immediato, “Peruzzo e Mancini: alla porta come pali!”
I due scattano: uno basso e grosso, l’altro alto e ancora più dinoccolato, nel suo completo di fustagno.
“Sono pronto anche io, ora!”, sorride dietro i denti, il bestione, dividendo a falcate il corridoio centrale, lasciato dalla distanza dei piani di lavoro.
“La sciatemi lavorare!”, aggiunge con fare altezzoso.
Disegna, l’artista, sul muro, al fondo della stanza: tra bisbigli d’approvazione e qualche risata sommessa, trattenuta per abitudine.
Le due vedette alla porta smettono improvvisamente di divertirsi per portare goffamente le mani ai lati della bocca, con l’intento d’amplificare l’avviso: “Ai posti! Sta arrivando!!”
Un rumoroso sbattere di sedie e gambe, un fruscio di stoffe che sfregano veloci, nella veemenza dell’azione.
Il pittore ha finito: sta solo rimirando il risultato finale, passeggiando lentamente all’indietro e mordicchiando il legno del pennello, con posa impegnata.
Il ragazzo entra: ha un ciuffo scomposto sulla fronte, tra i vetri di un paio d’occhiali a lente tonda che si assesta, prima di osservare con attenzione la scena.
Tutti compunti, ai loro posti.
Allora avanza tra i banchi, con le mani in tasca, fischiettando un motivo klezmer(*).
Passando al fianco di Benatti si ferma e nota il pennello che trattiene nel pugno, seminascosto dalle ginocchia.
Allora: alza lo sguardo, dritto-dritto, fino alla parete in fondo: c’è disegnato un cane che sta defecando.
Sotto, vergata in rosso, una frase da leggere svelta: EBREI, SIETE MERDE DI ANIMALI!
Riposiziona gli occhi sugli occhi di Benatti e, avvicinandolo, gli sfila con un colpo deciso la sciarpa in lana pettinata, via dal collo.
Quando un boato generale s’alza verso il soffitto il professore li sorprende: con quattro passi decisi si posiziona davanti alla lavagna, all’esatto opposto del muro imbrattato: “Levi! Si può di grazia sapere che cosa fa lì, in piedi, dandomi per giunta la schiena?”

Poi. Poi s’accorge della scritta: “Pensa di poter giustificare un comportamento come il suo, solo di conseguenza ad uno slogan che, peccando unicamente d’essere scritto in maniera ingenua, esprime in fondo l’opinione di tutti?”
Nel silenzio lasciato dalle parole il giovane, avvicinatosi nuovamente al muro, comincia ad appallottolare l’indumento di Benatti.
“E questo, questo!, secondo lei, sarebbe l’atteggiamento di un uomo?”
Gira il volto, Levi, ad osservare la domanda dell’insegnante, da sopra la spalla dedicandogli un piccolo, consapevole, amaro sorriso.

Poi. Poi si scuote come ridestato da pensieri lontani che lontano stavano trascinandosi e sputa sul drappo che stringe tra le mani.
Non ascolta la disapprovazione di tutti e continua a farlo, con vigore: “Sì, professore” sospira stanco Primo, “credo che questo sia l’atteggiamento: l’atteggiamento di un uomo!”
E con la stoffa, ora umida, cancella ogni traccia di colore. Fino a farlo sparire.

*musica ebraica, in particolare quella legata alla cultura aschenazita dell'Europa centrale e dell'est

venerdì 13 aprile 2007

bArAtToLi VuOtI



- Un wurstel grande, mezzo barattolo di paté di olive (sbattuto velocemente su di una fetta di pane nero tostato), un altro mezzo barattolo (questa volta di marmellata ai lamponi), un altro mezzo barattolo (questa volta di nutella fatta in casa), una spanna per una spanna di colomba farcita alla crema pasticcera, pezzi di cioccolato avanzati dalle uova di Pasqua, cinque fette di prosciutto cotto cariche di burro, due fiesta, due danito alla fragola/banana, quattro fette di salame felino, cucchiaiate di gelato non contate, tre bastoncini di quel cretino del capitano che stavano in frigo da ieri, già cotti. Sopra tutto: un litro ghiacciato di latte intero.

Ciao, Water!
Amico mio!
Come cazzo ti butta?
Sempre lì, in fondo alla stanza. Nel tuo cesso di stanza.
Aspetta, aspetta: mi allargo lo stomaco con sei o sette bicchieri d’acqua e sono da te!
Glu, glu, glu.
E non penso, mentre il cloro scende, dilatando i linfonodi del collo.
Premo solamente il pugno contro la bocca dello stomaco: devo trattenere tutto, liquidi e solidi. Per almeno dieci minuti. Prima di.
E’ un rito, sono le regole. Le istruzioni.
Seguendole ho la garanzia che tutto funzionerà come deve.
Eccomi, amico Water!
Faccia da culo che non sei altro!
La luce è fortissima: con la mano sinistra tiro indietro i capelli.
La destra incastrata in fondo alla gola: due dita a simulare una rivoltella. Come un gioco bambino.
Sposto il tappetino con il piede perché il ritorno di cibo non lo raggiunga.
Sorrido al primo conato timido a cui ne segue un altro: più spavaldo.
Il getto arriva come disegnato: una cascata omogenea, violacea e salda colonna. Dalla mia bocca al foro. Qualche minima pausa, impercettibile: la slavina procede sicura fino alle ultime gocce.
E mi lascia a tenermi stretta, ai bordi di ceramica: ora con tutte e due le mani.
Il volto ancora proteso nel cerchio d’acqua.
C’è qualcuno?
In fondo al pozzo, c’è qualcuno?
Sì: ci sono io.
I miei quindici anni.
Le mie anche sporgenti.
Gli zigomi strafottenti.
Le ginocchia appuntite.
Occhi abbandonati in orbite scavate. Soli.
Ci sono io. E mi lascio lì, spostandomi verso la bilancia e togliendomi gli abiti.
Un chilo e novecentocinquanta grammi buttati là in fondo.
“Meno due!” urlo.
E nessuno risponde: i miei genitori navigano tra isole calde, cullati dai responsabili della Costa crociere.
Allora nuoto anche io, tra le stanze, ancora nuda.
Sola.
E leggerissima.

Morirò all’età di trentadue anni: lo stesso numero di chili addosso.
Fino ad allora urlerò i risultati dal bagno.


giovedì 12 aprile 2007

mAlE dI mIeLe


...la sicurezza ha un ventre tenero ma è un demonio steso fra di noi ti manca e quindi puoi non crederlo ma io non mi sentivo libero e non è dolce essere unici ma se hai un proiettile ti libero gli errori veri son più forti poi quando fan finta di esser morti lo sai copriti bene se ti senti fredda hai la pressione bassa nell'anima com'è strano il saporeche riesco a sentire male di miele male di miele male di miele male di miele e la grandezza della mia morale è proporzionale al mio successo così ho rifatto il letto al meglio sai che sembra non ci abbiam dormito mai copriti bene se ti senti fredda hai la pressione bassa nell'anima com'è strano il sapore che riesco a sentire male di miele male di miele male di miele male di miele ti do le stesse possibilità di neve al centro dell'inferno, ti va?male di miele male di miele male di miele male di miele...

sabato 24 marzo 2007

sWeEt DrEaMs

"Come quelli che si mettono in viaggio per vedere con i loro occhi una città desiderata e immaginano si possa godere, in una realtà, le delizie della fantasia" (M.Proust)

perchè hai voluto uccidere i suoi sogni? dormiva. e l'hai svegliata.un coltello così lungo: l'impugnatura l'isola, la punta della lama il centro dell'oceano.

venerdì 16 marzo 2007

It's Only Rock'n'roll (But I like it) -seconda parte di due-


“Lo sai, Tina…torneranno in Italia!”, la voce mi trafora il timpano, urlata fuori dalla cornetta,
“Chi…?”, chiedo ingenua,
“Come chi!?”, rispondi scocciatissima,
“…ma tu…tu hai deciso cosa fare?”, azzardo,
“ Riguardo il concerto?”.
Interrompo la comunicazione.
Dopo pochi istanti il telefono squilla nuovamente:
“Scusa, Tina…cercavo di sorridere!”,
“Ti scuso, Valeria, ti scuso!”


Scatto. State fermi. Sorridete. Sorridete, se potete.

Interno casa. Soggiorno. Qualche gioco sparpagliato ai piedi di tutti. L’amica di sempre che prende la mira, la vostra famiglia marito/moglie/quattrofigli che si stringe nel formato 10-15.
Valeria sorregge il mento di Beatrice con una mano, con l’altra le strofina via una macchia di cioccolato. Silvia abbraccia una gamba del padre e, nel farlo, sposta a calci Giulio che vuole baciarla. Matteo, il più piccolo, osserva un punto lontano, oltre l’obiettivo: lo guarda e sorride.


Hai una borsa grigia dentro alla quale hai buttato due cose.
La camicia da notte te l’ho prestata io: sul davanti ha ricamato un coniglio che lascia delle lunghe tracce azzurre, segni degli sci che porta ai piedi. Era l’unica che potesse andare bene in questa stagione: l’hai guardata storcendo il naso poi l’hai appallottolata dentro il borsone, come fosse da buttare.
Sto dritta e ferma, sul tuo tappetino blu del bagno: ti guardo mentre, contro la luce del mattino, la spazzola scende a colpi decisi, tirando e liberando ricci vaporosi e ballerini.
Ti guardo in questo silenzio assurdo che, a casa tua, è difficile ricordare d’avere mai ascoltato.
I due bambini più grandi a scuola, i due più piccoli a dormire dai nonni.
Ti guardo ed ingoio un profumo forte, misto di borotalco e conegrina. Allora tossisco e il rumore è così improvviso che giri la testa di scatto e m’immagino di vederti gli occhi pieni di pianto. Invece no: li abbassi asciutti e mi passi vicina, spingendomi per un braccio: “Andiamo, è tardi”.

Io non lo so come starei se stessi andando ad abortire.
Tu stai così: zitta.
Donato è uscito di casa con una piccola valigia, venti giorni fa.
Beatrice si è chiusa in stanza e ha pianto con la testa inchiodata nel cuscino, per quaranta minuti.
Ha smesso quando Laura le ha telefonato per raccontarle che, una loro amica, anche lei tredicenne, si era fidanzata con il figlio della panettiera.
Silvia ha sputato tutta la minestrina che le faceva da cena nel piatto del fratellino ed è rimasta a guardarlo mentre lui urlava “Buon lavoro, papà”, dietro la porta.
Matteo ha battuto le mani al suo superman che è volato giù dal seggiolone.
Hai lasciato che tua madre lavasse i piatti e risistemasse la stanza e ti aiutasse a far addormentare tutti e ti dicesse “se hai bisogno chiama!”, perché abita nell’appartamento a fianco. Hai lasciato che ti sorridesse benevola. Hai lasciato che uscisse. Poi hai preso l’album delle fotografie del vostro matrimonio e hai iniziato a sfogliarlo, zitta. Come ora.
Io non lo so come starei se stessi entrando nell’ospedale.
Se stessi dettando il mio nome all’impiegata.
Se stessi chiedendo quando potrò uscire.
Se stessi ringraziando la mia amica perché, quando uscirò, tra circa tre ore, lei sarà qui ad aspettarmi.
Io non lo so come starei.
E non lo sai neanche tu.

La caposala ti ha vista entrare nel reparto e ti ha indicato la stanza: 372.
Guarda, Valeria, la combinazione: Beatrice è nata il 3 luglio, Silvia il 7. Giulio il 2.
Ma non ti è bastato: ti sei spogliata e hai indossato il camice azzurrino per prepararti all’intervento.
Coricata sulla barella: “Posso camminare!”, hai detto all’infermiera, “E’ la prassi, stia giù!”, ti ha zittita lei.
Nella sala dalle luci tonde, sul lettino, hai fissato la bocca dell’anestesista mentre pronunciava il tuo cognome e poi giù, sul collo, un ciondolo d’argento con il numero uno. Hai aperto le gambe e chiuso stretti gli occhi.
Matteo era nato diciotto mesi prima: quindici minuti di dolore.
Una stretta lancinante al fondo dell’addome che ha fatto rimbalzare il tuo grido sulle pareti del corridoio del reparto maternità.
Donato ti stringeva la mano e tu ripetevi che, quella volta, non ce l’avresti fatta.
Donato ti stringeva la mano e tu ripetevi che, quella volta, era più forte delle altre.
Invece: quindici minuti lancinanti e già piangeva sul tuo seno.
Era il primo gennaio.
Hai riaperto gli occhi e chiuso strette le gambe: “Non lo faccio più. Lo tengo.”
Mi sei venuta incontro e sembravi una bambina.
Ti ho dato un bacio sulla fronte, poi ti ho abbracciata stretta.


Il tour dei Rolling Stones è stato sospeso: Keith Richard, dopo essersi arrampicato su d’un banano, è scivolato schiantandosi a terra e rompendosi qualche costola.
Michele. Michele è nato l’altro ieri.

martedì 6 marzo 2007

rEgOlE


Marzo 2007: le giostre di carnevale al parco della Pellerina. A Torino.

domenica 4 marzo 2007

pOrTaMi Tu


Oggi, amica mia, oggi come stai?
Oggi non stai bene, ti è presa la stanchezza e la città ti segue a ruota. I tuoi umori influenzano Torino: è la città ad essere valeriopatica non tu, Valeria, a soffrire degli sbalzi metereologici.
Ti è presa la stanchezza che viaggia sempre a braccetto della tua personale malinconia e, oggi, non hai più la sindrome di down. “Mongola”. Me lo dici, nelle giornate come questa, quando arrivo al mattino per portarti a “fare le tue cose”, come le chiami tu. Me lo dici così piano e così mestamente e talmente a labbra strette che -io- riesco ad indovinarlo unicamente dall’espressione degli occhi: li stringi a fessura, in mezzo a quel faccione che lasci cadere di lato come un orsetto di pezza regalato almeno quindici natali fa.
“Mongola”. E in quella parola c’è la tua stanchezza, il disprezzo degli altri, gli sguardi che ti pesano addosso e ti seguono con impudenza credendo di non essere visti a loro volta, e paroline dette sotto voce, intervallate da risatine a cui rispondono altre risate, a cui seguono parole più ad alta voce perché il gruppo rende spavaldi, e l’ilarità suscitata da forza alla cattiveria. Te lo dicevano dall’asilo, quando tua mamma ti allacciava i bottoncini a cuoricino del grembiulino turchese fino all’ultimo, vicino al colletto bianco e tu le sorridevi ma, oltre la sua spalla, c’era Lauretta con a fianco Paola.
E loro, il grembiulino, sapevano abbottonarlo senza bisogno d’aiuto. Ora te lo dici da sola e lo comunichi a me: mi sento come mi vedono.
Hai già il cappotto e stai poggiata allo stipite della porta mentre salgo l’ultima rampa di scale: sposti la frangetta con il dorso della mano, adoperando un movimento lento e ben studiato e lasci che un filo di bavetta scenda dall’angolo della bocca, luccicando fino alla sciarpa rosa annodata malamente. Mi avvicino e ti asciugo le labbra con il fazzoletto che ho già mano: mongola lo hai già detto al citofono, usando la voce come campanello d’allarme, e io sapevo.
Ancora più lentamente indichi la carrozzella parcheggiata a fianco dello zerbino e scuoti il capo. Vuoi uscire seduta, le gambe non ti reggono. Dovrei provare a convincerti che è una balla, che sai camminare meglio di me e che daresti punti ad Heater Parisi, facendo la spaccata. Ma chi te lo fa fare, adesso? Adesso che stai così da schifo doverti anche sorbire le mie prediche, da pedante educatore professionale. Allora siediti, Valeria, siediti che usciamo. Il tempo di due telefonate, Valeria. E prendo il cellulare e scimmiotto il tono alla Silvio Berlusconi mentre compongo il numero di tua madre, scandendolo ad alta voce. Tutto bene, mamma di Valeria, stiamo scendendo. E spingo con una mano l’odiato marchingegno verso l’ascensore. Sì, mamma di Valeria, è un po’ giù. E le ruote s’incastrano stridendo gomma contro gomma sul pavimento della cabinetta sempre troppo stretta. Sì, cercheremo di distrarci un po’.
E faccio un inchino perché l’impresa mi è riuscita e stiamo scendendo. Sì,sì: magari saltiamo la fisioterapia.
La seconda telefonata è per il fisioterapista che, questa mattina, non incontreremo.




Siamo fuori, Valeria, e ti spingo e ti parlo del tempo, perché fa un freddo cane e le strade hanno una nebbiolina iridescente che lascia filtrare dei raggi lunghi e pigri di sole opaco. Allora corro un pochino, per scaldarmi e ti tiro su la sciarpa, per scaldarti: i portici di via Roma ci fanno scivolare veloci. Le signore eleganti riflesse nelle vetrine dei negozi le schiviamo elegantemente. I ragazzi che han bigiato la scuola li bigiamo con gli slalom. Faccio la buffona per rallegrarti: mi affaccio alla tua spalla e ti avverto che non garantisco sulla tua incolumità alla fine della passeggiata. Ma tu non ti rallegri. Arriviamo davanti alla stazione e stiamo ferme. Un monumento alla passività. Ci muoviamo verso i treni lente come i tuoi movimenti di rassegnazione. Un bar con le vetrate, un tavolino piccolo carico di cioccolata calda e tu che, trasgredendo qualsiasi regola del medico, assapori ogni cucchiaino come fosse il migliore del mondo e mi guardi sospettosa per il mio insolito mutismo.
Non te lo dovrei dire, Valeria. Non te lo dovrei dire ma te lo racconto. Ti racconto che anche a me oggi ha preso la tristezza, sai? Ti racconto che, ieri sera, ho attraversato il centro andando ad una velocità assolutamente sostenuta e la strada inghiottiva la mia piccola automobilina da essere mediocre nel buio e i lampioni schizzavano le luci sul parabrezza e io acceleravo. Poi ti dico che anche i lampioni hanno smesso di essere così luminosi e sono entrata in un cortiletto di periferia e sembrava che solo lì ci fosse vento, perché le lenzuola stese ad asciugare sbattevano e sembrava che cantassero talmente sbattevano, Valeria. E io ho parcheggiato sotto un platano mezzo storto, con il batticuore e ho lasciato la portiera semiaperta e sono corsa a suonare al suo citofono perché mi avevano detto che era tornato e, sapevo, mi avrebbe abbracciata e dati mille baci. Sai, Valeria, mi sento tanto stanca. Ho passato la notte in macchina, con la testa sul volante e gli occhi chiusi ma così chiusi da farmi bruciare il naso.
Perché io ho suonato e lui ha risposto e quando dietro, una vocina piccola, da donnina giovane, ha chiesto chi fosse, ha spiegato: “solo una collega passata per un saluto”.
Quella parola, Valeria, quella parola. Solo.

Hai aperto bene gli occhi e mi hai guardata piangere, amica mia. La tazza di cioccolata ancora semipiena davanti al naso, il cucchiaino sospeso a mezz’aria.
Poi ti sei alzata, mi hai preso le mani e hai fatto alzare anche me. Io singhiozzavo come una bambina capricciosa e tu mi hai spinta a sedere sulla tua sedia. Hai preso un fazzoletto dalla tasca e mi hai asciugato le guance. Ad un mio tentativo di rimettermi in piedi hai risposto scrollando le spalle e, facendomi una carezza tutta storta che tagliava in obliquo il viso, hai sorriso : “mongola”.
Hai ragione, Valeria, ho la tristezza dentro e anche io non riesco a sentirmi in nient’altro modo da come mi vedono.
Così, piano e piano ancora, siamo uscite dal bar, dalla stazione e dai nostri ruoli e sull’acciottolato della Torino antica mi hai spinta sbuffando fino a che il sole non si è fermato più forte sul tuo portone.

mercoledì 21 febbraio 2007

It's Only Rock'n'roll (But I like it) -prima parte di due-


(M. Jagger/K. Richards) If I could stick my pen in my heart And spill it all over the stage Would it satisfy ya, would it slide on by ya Would you think the boy is strange? Ain't he strange? If I could win ya, if I could sing ya A love song so divine Would it be enough for your cheating heart If I broke down and cried? If I cried? I said I know it's only rock 'n roll but I like it I know it's only rock 'n roll but I like it, like it, yes, I do Oh, well, I like it, I like it, I like it I said can't you see that this old boy has been a lonely? If I could stick a knife in my heart Suicide right on stage Would it be enough for your teenage lust Would it help to ease the pain? Ease your brain? If I could dig down deep in my heart Feelings would flood on the page Would it satisfy ya, would it slide on by ya Would ya think the boy's insane? He's insane I said I know it's only rock 'n roll but I like it I said I know it's only rock'n roll but I like it, like it, yes, I do Oh, well, I like it, I like it, I like it I said can't you see that this old boy has been a lonely? And do ya think that you're the only girl around? I bet you think that you're the only woman in town I said I know it's only rock 'n roll but I like it I said I know it's only rock 'n roll but I like it I said I know it's only rock 'n roll but I like it, like it, yes, I do Oh, well, I like it, I like it. I like it...

Quando Mick Jagger decise di voltarsi e far notare quanto le sue natiche da rocker fossero ancora sode ed appetibili, giuro: Valeria mi strinse il polso fortissimo ed iniziò a tirare.
E mentre, spalleggiando come un giocatore di rugby professionista, sgomitando con quelle sue braccine ossute, tirava, bestemmiava a bassa voce. O, almeno, così mi pare d’aver sentito. Vorrei sbagliarmi.
Il palco dove l’ottuagenario, miracolosamente salvato da una femminea quanto ancora attiva carica sessuale, stava simulando ora l’amplesso impugnando il microfono, si biforcava in due corridoi che s’immettevano spavaldamente tra la folla. Quando i labbroni di Mick iniziarono ad avanzare su quello di destra verso il quale procedevamo a spintoni con Valeria da motrice, lei si voltò a guardarmi: “ti muovi?” mi urlò rabbiosa “non riesco…” “devo toccarlo…” “si, capisco…ma non riesco…”. A quel punto scosse le dita, come quando si cerca di scrollarsi lo sporco dalle mani, alzò il mento e mi regalò un “allora, vaffanculo…”. E in un attimo scomparve tra le braccia alzate di tutti, il fumo di marijuana e il sudore dei fanatici. La vidi dopo un quarto d’ora, issata da un bestione a torso nudo, mandare baci verso i suoni, muovendo la testa che così dichiarava, chiaramente, che era solo rock’n’roll ma le piaceva.

L’aspettavo sotto il palo della luce, all’uscita dello stadio. Mi venne incontro ancheggiando paurosamente: una lattina di heineken sorseggiata mentre il petto le si muoveva in rapidi singhiozzi fatti da risatine che mi regalava, da lontano.
“allora? L’hai toccato?” fece no ma fece anche spallucce, come dire non capisci un cazzo, tu, cosa importa, l’ho toccato con gli occhi, ci ho ballato con i pensieri ed ora occhi e pensieri, sono ancora in festa. Così la guardai mentre si sistemava la maglietta che aveva tirato su-su, fermata dall’impetuoso seno: due occhi quasi giapponesi, gli zigomi alti, i capelli mossi-cavaturaccioli sulle spalle, i fianchi stretti, le gambe lunghissime lunghissime lunghissime. Una ragazzina.
Poi si avvicinò e, proprio quella vicinanza, la tradì in un modo grottesco che ridimensiona l’eterno.
Quel giorno era il suo compleanno: Valeria compiva quarantadue anni. E li compiva tutti.
“Pensi che dovrei telefonare a Beatrice? Voglio dire…credi sia troppo tardi?” mi strinsi nelle spalle, mentre camminavamo lente verso il parcheggio. Ma la scoprii già piegata con la testa sul telefonino armeggiare per accendere una sigaretta, gli occhi socchiusi per sentir meglio la risposta, dall’altra parte: “Bea! Tutto bene, amore?” e via una sequenza di pucci-pucci, cippi-cippi, “Si, Bea…è stato bello-bellissimo…ora rientro a casa. Tu dormi pure che la mamma torna subito”.
Riattaccato il telefono piombammo in un silenzio disturbato solo dai passi” Ora Bea andrà a nanna tranquilla…” mi sorrise,
“e Silvia?” chiesi,
“Già dormiva…” rispose,
“e Matteo?”chiesi,
“Già dormiva…” rispose,
“e Giulio?” chiesi,
“Già dormiva…” rispose.
E la macchina? Già usciva dalla sua postazione in retromarcia. Noi due dentro. Di nuovo in silenzio.

Quando Donato mi chiamò sul lavoro dicendo di volermi e dovermi assolutamente parlare mi venne un sospetto. Immaginai che ci fosse qualcosa che non andava un po’ più grosso, rispetto alle cose che già non erano andate altre volte. Ci mettemmo d’accordo per incontrarci al bar della stazione, quella piccola.
Una piazza assolata e desolata, dalla quale, da ogni punto ti sorprende lo scampanellio che avvisa e informa dell’esistenza dei treni, così che ti senti un po’ di agitazione addosso e ascolti le voci metalliche scandire destinazioni, tempi e ritardi.
Lui arriva con la seicento azzurrina, quella che ha comperato dal tabaccaio sotto casa che voleva farsela fuori perché lo stato è un cattivo stato. Ma Donato ne aveva bisogno e, oltre alla necessità, teneva in tasca solo trecento euro. Erano bastati.
Scosta i ciuffi albini che gli coprono quasi gli occhi e scodinzola con le dita un saluto imbarazzato fin da subito. Profuma di giubbotto di pelle e sigarette fatte a mano.
Andiamo a sederci al tavolino del bar “Snoopy”, fatto di un metallo che assorbe il calore così che mi viene ancora più caldo e, quando guardo il luccichio di lacrime che sta iniziando a spingere dai suoi occhi rossi, mi viene quasi da svenire.

Voglio fare mente locale:
Beatrice assomiglia a Valeria,
Silvia a Donato,
Matteo a Valeria,
Giulio a nessuno ma sorride come Valeria e si arrabbia come Donato.

“Tina…mi devi aiutare…me ne voglio andare”
“Lo so, Dona, lo so…”
“E’ un anno che ci stiamo uccidendo…”
“Lo so, Dona, lo so…”
“Stalle vicina, Tina…aiutala…”
Vorrei dirtelo, Donato, è un anno che vorrei dirtelo. Io posso accompagnare Valeria nella sua adolescenza tardiva, farla svagare, ascoltare i tuoi sensi di colpa, ascoltare i suoi.
Posso vedervi mentre vi consumate, mentre rinfacciate a turno difetti che –anni fa- vi sembravano pregi. Posso osservare impotente la vostra frustrazione, la paura, il rancore, la rabbia.
Null’altro, Donato, null’altro. Che consigli vi aspettate da me che non ho figli che non sono sposata che vivo con mia madre che non so riconoscere i compromessi dalle scelte ma che forse vivo di un unico grande equivoco? Quali pareri? Quali opinioni?
Due giorni dopo, allo stesso tavolino, Valeria, con gli occhi bagnati presi in prestito dal padre dei suoi figli, fa strisciare un foglio sul metallo che non è più caldo e intrattabile come l’altra volta.
Test di gravidanza.
E inizia a piovere.
Positivo.
Ordiniamo una cedrata e un chinotto.
Bibite così le hanno solo in questo posto.

martedì 13 febbraio 2007

i baci sulle Mani

Ciao, come stai?
Ti telefono poche volte perché il tuo silenzio al di là del filo mi imbarazza e, la paura di farti male, con le mie pause, blocca le dita che si chiudono strette nei palmi delle mani, ciondoloni lungo i fianchi. Divento un palo, di fronte al telefono. Lascio passare qualche minuto buono, poi mi volto veloce e di solito corro in strada, dove c’è Diego che mi aspetta, per andare a fare due tiri al pallone.
Tutti i fine settimana o, almeno, quasi tutti. E il gesto rasserena la mia coscienza, allevia il peso del rimorso, pulisce un po’ lo sporco dell’anima.
Tu, lo sporco, me lo lavavi via da magliette e jeans, quando tornavo dalle mie incursioni pomeridiane, dai miei essere sceriffo in cortile, distruggendomi gli abiti a combattere con gli indiani: “Vame a pje al savun”…e io correvo e tornavo con le mani cariche di scaglie profumate di Marsiglia e tranquillità del precena.
Io ti vedo: piegata con i riccioli scomposti sulla fronte a fregar le stoffe e a fregare me di sorpresa quando, con un cenno del mento, indicavi il vassoio sulla mensola dell’entrata. E, sopra ad un fazzoletto a scacchi bianchi e marroni, il pane a fette più buono del mondo.
Non l’ho mangiata più, una cosa così.
Dopo poco tempo, neanche tu saresti stata più capace di farla.
E io mi ostinavo a dire alla mamma che ti bastava alzarti dalla sedia su cui stavi a fissare il vuoto, prendere le cosette che servivano e preparare le cosette che volevo mangiare. Ma la mamma scuoteva la testa, mentre le si riempivano gli occhi di lacrime. E tu continuavi a guardare il vuoto.
Dove stavi andando? Perché non ho saputo stringerti forte le dita su cui quando ero piccolo posizionavo bacetti lumacosi per riceverne in cambio i tuoi sorrisi grandi? Rivoglio quel tempo. Rivoglio il controllo. Rivoglio la possibilità di mentirmi, fingendo di poterti trattenere. O seguire.

Allora, corro, nonna.
Attraverso Torino con il tram e vengo lì al pensionato dove osservi lo stesso vuoto.
Ed entro in stanza e profumi ancora un po’ di te, sotto quell’odore di vecchio che mi fa paura.
E ti racconto di quel pane, nonna: prendevi una biovetta e la tagliavi in due e poi la bagnavi e poi ci aggiungevi dei fiocchi di burro e una spolverata di zucchero.
E piango come un pazzo, così forte che devo mettere la testa sulle tue ginocchia, per attutire i singhiozzi.
Ma il prossimo anno sono maggiorenne e prendo la patente e vengo, nonna, e andiamo in centro e poi a casa, a far merenda.
Nonna.
Allora, con un gesto lento, ti volti e apri il cassetto del tuo comodino e ne tiri fuori un panino vecchio e secco: “Anduma?”
Si nonna, andiamo.
Quando?
Il prossimo anno, nonna, il prossimo anno.






lunedì 12 febbraio 2007

IL SIGNORE DELLE ANSIE



Oggi
al posto di inforcare la bici
per scappare lontano
inforca il batticuore
uccidi l'extrasistole
ammazza il vigliacco che tenta
prova
e tenta ancora
di assassinarti per primo.
Quando sarà caduto
metteremo su un disco.
Insieme si potrà ballare.

(Alessandro)




lunedì 29 gennaio 2007

IL CUORE NEL CASSETTO


Mi faccio piccola, appoggiata a questo tavolo di cucina.
Mi stringo le spalle ed ingoio voglia di fumare e parole che non potrò dire ad alta voce. Sono sola, del resto.
I giorni son cambiati, tesoro. Velocemente cambiati.
Mentre ti aspetto voglio immaginarti qui, davanti a me, a sorseggiare una calda tisana e ad imbronciarti quando divento noiosa e pedante. Voglio immaginarti mentre stai ad ascoltarmi perché io, te lo devo proprio dire, questo tempo che muta le cose, non riesco a mandarlo giù.
Io vorrei conoscere un mago buono buono, che cristallizzasse gli eventi positivi e li facesse godere fino in fondo, fino al fondo.
E’ passata la mezzanotte da un pezzo e il gennaio di Torino, subdolo ma cortese come un vero piemontese, s’infila al di sotto delle imposte, ghiacciandomi le dita dei piedi che mi ostino a non coprire con le calze invernali che mi hai regalato a Natale: troppo carine per essere adoperate!
E troppo carino è il tuo naso che si arriccia quando sorridi e i tuoi occhi che scrutano indagatori con la spavalderia del loro colore intenso e i tuoi capelli che profumano di quei capelli che sono stati al vento.
Io, ogni volta che li guardo, questi tratti famigliari, questi tratti a memoria, questi pezzi di cuore, vorrei cantare e dirtelo chiaro: mi han fatta innamorare dal primo momento.
Io, quei tocchetti di te, li ho studiati e spiati migliaia di volte: mentre dormivi, serenamente o mentre parlavi in un sonno inquieto, catturato dagli incubi.
E il tuo cuore? Il tuo cuore mi riconosce subito, quando m’avvicino, nel sonno: aspetto che mi saluti, facendo pulsare il sangue sul tuo collo…poi conto sette respiri e mi rassereno: va tutto bene. Il mio, di cuore, perde qualche colpo e sobbalza spesso perché tifa per te e si contrae veloce pieno delle tue aspettative, preoccupato per le tue preoccupazioni, felice della tua felicità , triste con la tua tristezza. Colmo di te, in ogni momento. E di cose, questi due cuori, il mio ed il tuo, insieme, ne han passate!
Capirai perché ti aspetto e non mi sembra vita, questa vita mono-cardiaca: il mio cuore è abituato a battere in coppia!
Allora mi alzo, da questa sedia dove il didietro mi si sta facendo piatto, cerco una penna nel barattolo vicino al telefono ed un foglietto nel primo cassetto, quello pieno di tutto. E mentre cerco, tra una sorpresina Kinder ed un cucchiaino storto, mi scivola sul dorso della mano, come se fosse magica, una tua fotografia, talmente piccola che mi appari come il personaggio di un fumetto. Con le mani sui fianchi, il mento alzato e le labbra ferme a tirarmi un bacio, mi guardi dalla carta semi-sgualcita, formato tessera. Le rassicurazioni mi arrivano da quel quadratino, insieme al rumore del portone che si chiude, di sotto. Allora faccio scivolare la faccina nella tasca del mio grembiule, scrivo veloce due righe da lasciarti a sostituire i bacetti della buona notte e mi lancio svelta nella mia stanza, nel mio letto, sotto le coperte.
Appena in tempo, prima che tu apra la porta di casa.
E così, anima mia, non saprai che ti ho aspettata in ansia.
E così, gioia dei miei pensieri, non saprai che è dura, quando non ci sei.
Saprai solo il mio affetto, scritto e lasciato su quel tavolo da cucina con un sospiro di sollievo regalatomi dal tuo rientro. Con una calligrafia stanca ma perentoria: ti voglio tanto bene.
Firmato: la mamma.

lunedì 22 gennaio 2007

aUtOsCaTtO a Milano nov2006


pRoMeSsE

ad ogni successo un bacio.
poi cambiammo:
ad ogni errore.
ora
labbra sulle labbra
mani cariche di graffi
noi
in questo mondo disordinato
in questo modo disordinato
sempre più innamorati
ci baciamo.
ed occhi lacrimanti
sorridenti
su tutti gli sbagli.

venerdì 19 gennaio 2007

dEnTrO mary


Ho ingoiato il mio piercing! Ora ho una barra lunghissima con due piccole palline rosa per impedire che il buco si chiuda! Com'è difficile credersi giovani!

venerdì 12 gennaio 2007

aCcAnTo


Il demonio s'agita senza posa accanto a me-te;
come un'aria impalpabile mi-ti ruota intorno
e io-tu l'ingoio/i e sento-i che brucia i miei-tuoi polmoni
e li riempie d'un desiderio colpevole ed eterno.
A volte, sapendo il grande amore che ho-hai per l'Arte
prende la forma della donna più seducente
che con speciosi pretesti da ipocrita
abitua le mie-tue labbra a filtri infami!

(Charles Baudelaire)

a chi me lo chiese, un tempo: il lexotan ha sapore di frutti di bosco.
DE-LI-ZIO-SO!
temphe sbuca dalla notte poi ci si rificca.