sabato 24 marzo 2007

sWeEt DrEaMs

"Come quelli che si mettono in viaggio per vedere con i loro occhi una città desiderata e immaginano si possa godere, in una realtà, le delizie della fantasia" (M.Proust)

perchè hai voluto uccidere i suoi sogni? dormiva. e l'hai svegliata.un coltello così lungo: l'impugnatura l'isola, la punta della lama il centro dell'oceano.

venerdì 16 marzo 2007

It's Only Rock'n'roll (But I like it) -seconda parte di due-


“Lo sai, Tina…torneranno in Italia!”, la voce mi trafora il timpano, urlata fuori dalla cornetta,
“Chi…?”, chiedo ingenua,
“Come chi!?”, rispondi scocciatissima,
“…ma tu…tu hai deciso cosa fare?”, azzardo,
“ Riguardo il concerto?”.
Interrompo la comunicazione.
Dopo pochi istanti il telefono squilla nuovamente:
“Scusa, Tina…cercavo di sorridere!”,
“Ti scuso, Valeria, ti scuso!”


Scatto. State fermi. Sorridete. Sorridete, se potete.

Interno casa. Soggiorno. Qualche gioco sparpagliato ai piedi di tutti. L’amica di sempre che prende la mira, la vostra famiglia marito/moglie/quattrofigli che si stringe nel formato 10-15.
Valeria sorregge il mento di Beatrice con una mano, con l’altra le strofina via una macchia di cioccolato. Silvia abbraccia una gamba del padre e, nel farlo, sposta a calci Giulio che vuole baciarla. Matteo, il più piccolo, osserva un punto lontano, oltre l’obiettivo: lo guarda e sorride.


Hai una borsa grigia dentro alla quale hai buttato due cose.
La camicia da notte te l’ho prestata io: sul davanti ha ricamato un coniglio che lascia delle lunghe tracce azzurre, segni degli sci che porta ai piedi. Era l’unica che potesse andare bene in questa stagione: l’hai guardata storcendo il naso poi l’hai appallottolata dentro il borsone, come fosse da buttare.
Sto dritta e ferma, sul tuo tappetino blu del bagno: ti guardo mentre, contro la luce del mattino, la spazzola scende a colpi decisi, tirando e liberando ricci vaporosi e ballerini.
Ti guardo in questo silenzio assurdo che, a casa tua, è difficile ricordare d’avere mai ascoltato.
I due bambini più grandi a scuola, i due più piccoli a dormire dai nonni.
Ti guardo ed ingoio un profumo forte, misto di borotalco e conegrina. Allora tossisco e il rumore è così improvviso che giri la testa di scatto e m’immagino di vederti gli occhi pieni di pianto. Invece no: li abbassi asciutti e mi passi vicina, spingendomi per un braccio: “Andiamo, è tardi”.

Io non lo so come starei se stessi andando ad abortire.
Tu stai così: zitta.
Donato è uscito di casa con una piccola valigia, venti giorni fa.
Beatrice si è chiusa in stanza e ha pianto con la testa inchiodata nel cuscino, per quaranta minuti.
Ha smesso quando Laura le ha telefonato per raccontarle che, una loro amica, anche lei tredicenne, si era fidanzata con il figlio della panettiera.
Silvia ha sputato tutta la minestrina che le faceva da cena nel piatto del fratellino ed è rimasta a guardarlo mentre lui urlava “Buon lavoro, papà”, dietro la porta.
Matteo ha battuto le mani al suo superman che è volato giù dal seggiolone.
Hai lasciato che tua madre lavasse i piatti e risistemasse la stanza e ti aiutasse a far addormentare tutti e ti dicesse “se hai bisogno chiama!”, perché abita nell’appartamento a fianco. Hai lasciato che ti sorridesse benevola. Hai lasciato che uscisse. Poi hai preso l’album delle fotografie del vostro matrimonio e hai iniziato a sfogliarlo, zitta. Come ora.
Io non lo so come starei se stessi entrando nell’ospedale.
Se stessi dettando il mio nome all’impiegata.
Se stessi chiedendo quando potrò uscire.
Se stessi ringraziando la mia amica perché, quando uscirò, tra circa tre ore, lei sarà qui ad aspettarmi.
Io non lo so come starei.
E non lo sai neanche tu.

La caposala ti ha vista entrare nel reparto e ti ha indicato la stanza: 372.
Guarda, Valeria, la combinazione: Beatrice è nata il 3 luglio, Silvia il 7. Giulio il 2.
Ma non ti è bastato: ti sei spogliata e hai indossato il camice azzurrino per prepararti all’intervento.
Coricata sulla barella: “Posso camminare!”, hai detto all’infermiera, “E’ la prassi, stia giù!”, ti ha zittita lei.
Nella sala dalle luci tonde, sul lettino, hai fissato la bocca dell’anestesista mentre pronunciava il tuo cognome e poi giù, sul collo, un ciondolo d’argento con il numero uno. Hai aperto le gambe e chiuso stretti gli occhi.
Matteo era nato diciotto mesi prima: quindici minuti di dolore.
Una stretta lancinante al fondo dell’addome che ha fatto rimbalzare il tuo grido sulle pareti del corridoio del reparto maternità.
Donato ti stringeva la mano e tu ripetevi che, quella volta, non ce l’avresti fatta.
Donato ti stringeva la mano e tu ripetevi che, quella volta, era più forte delle altre.
Invece: quindici minuti lancinanti e già piangeva sul tuo seno.
Era il primo gennaio.
Hai riaperto gli occhi e chiuso strette le gambe: “Non lo faccio più. Lo tengo.”
Mi sei venuta incontro e sembravi una bambina.
Ti ho dato un bacio sulla fronte, poi ti ho abbracciata stretta.


Il tour dei Rolling Stones è stato sospeso: Keith Richard, dopo essersi arrampicato su d’un banano, è scivolato schiantandosi a terra e rompendosi qualche costola.
Michele. Michele è nato l’altro ieri.

martedì 6 marzo 2007

rEgOlE


Marzo 2007: le giostre di carnevale al parco della Pellerina. A Torino.

domenica 4 marzo 2007

pOrTaMi Tu


Oggi, amica mia, oggi come stai?
Oggi non stai bene, ti è presa la stanchezza e la città ti segue a ruota. I tuoi umori influenzano Torino: è la città ad essere valeriopatica non tu, Valeria, a soffrire degli sbalzi metereologici.
Ti è presa la stanchezza che viaggia sempre a braccetto della tua personale malinconia e, oggi, non hai più la sindrome di down. “Mongola”. Me lo dici, nelle giornate come questa, quando arrivo al mattino per portarti a “fare le tue cose”, come le chiami tu. Me lo dici così piano e così mestamente e talmente a labbra strette che -io- riesco ad indovinarlo unicamente dall’espressione degli occhi: li stringi a fessura, in mezzo a quel faccione che lasci cadere di lato come un orsetto di pezza regalato almeno quindici natali fa.
“Mongola”. E in quella parola c’è la tua stanchezza, il disprezzo degli altri, gli sguardi che ti pesano addosso e ti seguono con impudenza credendo di non essere visti a loro volta, e paroline dette sotto voce, intervallate da risatine a cui rispondono altre risate, a cui seguono parole più ad alta voce perché il gruppo rende spavaldi, e l’ilarità suscitata da forza alla cattiveria. Te lo dicevano dall’asilo, quando tua mamma ti allacciava i bottoncini a cuoricino del grembiulino turchese fino all’ultimo, vicino al colletto bianco e tu le sorridevi ma, oltre la sua spalla, c’era Lauretta con a fianco Paola.
E loro, il grembiulino, sapevano abbottonarlo senza bisogno d’aiuto. Ora te lo dici da sola e lo comunichi a me: mi sento come mi vedono.
Hai già il cappotto e stai poggiata allo stipite della porta mentre salgo l’ultima rampa di scale: sposti la frangetta con il dorso della mano, adoperando un movimento lento e ben studiato e lasci che un filo di bavetta scenda dall’angolo della bocca, luccicando fino alla sciarpa rosa annodata malamente. Mi avvicino e ti asciugo le labbra con il fazzoletto che ho già mano: mongola lo hai già detto al citofono, usando la voce come campanello d’allarme, e io sapevo.
Ancora più lentamente indichi la carrozzella parcheggiata a fianco dello zerbino e scuoti il capo. Vuoi uscire seduta, le gambe non ti reggono. Dovrei provare a convincerti che è una balla, che sai camminare meglio di me e che daresti punti ad Heater Parisi, facendo la spaccata. Ma chi te lo fa fare, adesso? Adesso che stai così da schifo doverti anche sorbire le mie prediche, da pedante educatore professionale. Allora siediti, Valeria, siediti che usciamo. Il tempo di due telefonate, Valeria. E prendo il cellulare e scimmiotto il tono alla Silvio Berlusconi mentre compongo il numero di tua madre, scandendolo ad alta voce. Tutto bene, mamma di Valeria, stiamo scendendo. E spingo con una mano l’odiato marchingegno verso l’ascensore. Sì, mamma di Valeria, è un po’ giù. E le ruote s’incastrano stridendo gomma contro gomma sul pavimento della cabinetta sempre troppo stretta. Sì, cercheremo di distrarci un po’.
E faccio un inchino perché l’impresa mi è riuscita e stiamo scendendo. Sì,sì: magari saltiamo la fisioterapia.
La seconda telefonata è per il fisioterapista che, questa mattina, non incontreremo.




Siamo fuori, Valeria, e ti spingo e ti parlo del tempo, perché fa un freddo cane e le strade hanno una nebbiolina iridescente che lascia filtrare dei raggi lunghi e pigri di sole opaco. Allora corro un pochino, per scaldarmi e ti tiro su la sciarpa, per scaldarti: i portici di via Roma ci fanno scivolare veloci. Le signore eleganti riflesse nelle vetrine dei negozi le schiviamo elegantemente. I ragazzi che han bigiato la scuola li bigiamo con gli slalom. Faccio la buffona per rallegrarti: mi affaccio alla tua spalla e ti avverto che non garantisco sulla tua incolumità alla fine della passeggiata. Ma tu non ti rallegri. Arriviamo davanti alla stazione e stiamo ferme. Un monumento alla passività. Ci muoviamo verso i treni lente come i tuoi movimenti di rassegnazione. Un bar con le vetrate, un tavolino piccolo carico di cioccolata calda e tu che, trasgredendo qualsiasi regola del medico, assapori ogni cucchiaino come fosse il migliore del mondo e mi guardi sospettosa per il mio insolito mutismo.
Non te lo dovrei dire, Valeria. Non te lo dovrei dire ma te lo racconto. Ti racconto che anche a me oggi ha preso la tristezza, sai? Ti racconto che, ieri sera, ho attraversato il centro andando ad una velocità assolutamente sostenuta e la strada inghiottiva la mia piccola automobilina da essere mediocre nel buio e i lampioni schizzavano le luci sul parabrezza e io acceleravo. Poi ti dico che anche i lampioni hanno smesso di essere così luminosi e sono entrata in un cortiletto di periferia e sembrava che solo lì ci fosse vento, perché le lenzuola stese ad asciugare sbattevano e sembrava che cantassero talmente sbattevano, Valeria. E io ho parcheggiato sotto un platano mezzo storto, con il batticuore e ho lasciato la portiera semiaperta e sono corsa a suonare al suo citofono perché mi avevano detto che era tornato e, sapevo, mi avrebbe abbracciata e dati mille baci. Sai, Valeria, mi sento tanto stanca. Ho passato la notte in macchina, con la testa sul volante e gli occhi chiusi ma così chiusi da farmi bruciare il naso.
Perché io ho suonato e lui ha risposto e quando dietro, una vocina piccola, da donnina giovane, ha chiesto chi fosse, ha spiegato: “solo una collega passata per un saluto”.
Quella parola, Valeria, quella parola. Solo.

Hai aperto bene gli occhi e mi hai guardata piangere, amica mia. La tazza di cioccolata ancora semipiena davanti al naso, il cucchiaino sospeso a mezz’aria.
Poi ti sei alzata, mi hai preso le mani e hai fatto alzare anche me. Io singhiozzavo come una bambina capricciosa e tu mi hai spinta a sedere sulla tua sedia. Hai preso un fazzoletto dalla tasca e mi hai asciugato le guance. Ad un mio tentativo di rimettermi in piedi hai risposto scrollando le spalle e, facendomi una carezza tutta storta che tagliava in obliquo il viso, hai sorriso : “mongola”.
Hai ragione, Valeria, ho la tristezza dentro e anche io non riesco a sentirmi in nient’altro modo da come mi vedono.
Così, piano e piano ancora, siamo uscite dal bar, dalla stazione e dai nostri ruoli e sull’acciottolato della Torino antica mi hai spinta sbuffando fino a che il sole non si è fermato più forte sul tuo portone.