domenica 22 aprile 2007

fino a farti sparire

la fotografia è gentilmente concessa da http://digilander.libero.it/francescocoluccio/index.htm
un sito che vi invito con il cuore a visitare.

Torino è così, nel marzo di quest’anno scarno di sentimenti: umida e opaca.
Il cielo sembra trattenere uno starnuto, mentre il grigio colora anche i passi lenti e cadenzati.
Il viale alberato, dinanzi al liceo Massimo D’Azeglio, è una via solcata dalle formiche: gli studenti, che vi si muovono, piccoli insetti indolenziti dalla notte appena conclusa e dal freddo che filtra strafottente, anche attraverso le stoffe più spesse.
La quintaE si raduna in quattro o cinque gruppetti, al principio della complice scalinata in pietra: al suono della campanella è la prima a ricomporsi per riempire l’aula.
Benatti, detto Il Massimo, si ferma davanti alla cattedra, le braccia a mo’ di brocca, sui fianchi.
I ragazzi sono artificiosamente silenziosi.
Lui ha nella mano sinistra un barattolo di vernice, in quell’altra un pennello di setole spesse, lungo e consumato nell’impugnatura: “Siete pronti?”, un brusio d’assenso lo raggiunge, più veloce dell’immediato, “Peruzzo e Mancini: alla porta come pali!”
I due scattano: uno basso e grosso, l’altro alto e ancora più dinoccolato, nel suo completo di fustagno.
“Sono pronto anche io, ora!”, sorride dietro i denti, il bestione, dividendo a falcate il corridoio centrale, lasciato dalla distanza dei piani di lavoro.
“La sciatemi lavorare!”, aggiunge con fare altezzoso.
Disegna, l’artista, sul muro, al fondo della stanza: tra bisbigli d’approvazione e qualche risata sommessa, trattenuta per abitudine.
Le due vedette alla porta smettono improvvisamente di divertirsi per portare goffamente le mani ai lati della bocca, con l’intento d’amplificare l’avviso: “Ai posti! Sta arrivando!!”
Un rumoroso sbattere di sedie e gambe, un fruscio di stoffe che sfregano veloci, nella veemenza dell’azione.
Il pittore ha finito: sta solo rimirando il risultato finale, passeggiando lentamente all’indietro e mordicchiando il legno del pennello, con posa impegnata.
Il ragazzo entra: ha un ciuffo scomposto sulla fronte, tra i vetri di un paio d’occhiali a lente tonda che si assesta, prima di osservare con attenzione la scena.
Tutti compunti, ai loro posti.
Allora avanza tra i banchi, con le mani in tasca, fischiettando un motivo klezmer(*).
Passando al fianco di Benatti si ferma e nota il pennello che trattiene nel pugno, seminascosto dalle ginocchia.
Allora: alza lo sguardo, dritto-dritto, fino alla parete in fondo: c’è disegnato un cane che sta defecando.
Sotto, vergata in rosso, una frase da leggere svelta: EBREI, SIETE MERDE DI ANIMALI!
Riposiziona gli occhi sugli occhi di Benatti e, avvicinandolo, gli sfila con un colpo deciso la sciarpa in lana pettinata, via dal collo.
Quando un boato generale s’alza verso il soffitto il professore li sorprende: con quattro passi decisi si posiziona davanti alla lavagna, all’esatto opposto del muro imbrattato: “Levi! Si può di grazia sapere che cosa fa lì, in piedi, dandomi per giunta la schiena?”

Poi. Poi s’accorge della scritta: “Pensa di poter giustificare un comportamento come il suo, solo di conseguenza ad uno slogan che, peccando unicamente d’essere scritto in maniera ingenua, esprime in fondo l’opinione di tutti?”
Nel silenzio lasciato dalle parole il giovane, avvicinatosi nuovamente al muro, comincia ad appallottolare l’indumento di Benatti.
“E questo, questo!, secondo lei, sarebbe l’atteggiamento di un uomo?”
Gira il volto, Levi, ad osservare la domanda dell’insegnante, da sopra la spalla dedicandogli un piccolo, consapevole, amaro sorriso.

Poi. Poi si scuote come ridestato da pensieri lontani che lontano stavano trascinandosi e sputa sul drappo che stringe tra le mani.
Non ascolta la disapprovazione di tutti e continua a farlo, con vigore: “Sì, professore” sospira stanco Primo, “credo che questo sia l’atteggiamento: l’atteggiamento di un uomo!”
E con la stoffa, ora umida, cancella ogni traccia di colore. Fino a farlo sparire.

*musica ebraica, in particolare quella legata alla cultura aschenazita dell'Europa centrale e dell'est

venerdì 13 aprile 2007

bArAtToLi VuOtI



- Un wurstel grande, mezzo barattolo di paté di olive (sbattuto velocemente su di una fetta di pane nero tostato), un altro mezzo barattolo (questa volta di marmellata ai lamponi), un altro mezzo barattolo (questa volta di nutella fatta in casa), una spanna per una spanna di colomba farcita alla crema pasticcera, pezzi di cioccolato avanzati dalle uova di Pasqua, cinque fette di prosciutto cotto cariche di burro, due fiesta, due danito alla fragola/banana, quattro fette di salame felino, cucchiaiate di gelato non contate, tre bastoncini di quel cretino del capitano che stavano in frigo da ieri, già cotti. Sopra tutto: un litro ghiacciato di latte intero.

Ciao, Water!
Amico mio!
Come cazzo ti butta?
Sempre lì, in fondo alla stanza. Nel tuo cesso di stanza.
Aspetta, aspetta: mi allargo lo stomaco con sei o sette bicchieri d’acqua e sono da te!
Glu, glu, glu.
E non penso, mentre il cloro scende, dilatando i linfonodi del collo.
Premo solamente il pugno contro la bocca dello stomaco: devo trattenere tutto, liquidi e solidi. Per almeno dieci minuti. Prima di.
E’ un rito, sono le regole. Le istruzioni.
Seguendole ho la garanzia che tutto funzionerà come deve.
Eccomi, amico Water!
Faccia da culo che non sei altro!
La luce è fortissima: con la mano sinistra tiro indietro i capelli.
La destra incastrata in fondo alla gola: due dita a simulare una rivoltella. Come un gioco bambino.
Sposto il tappetino con il piede perché il ritorno di cibo non lo raggiunga.
Sorrido al primo conato timido a cui ne segue un altro: più spavaldo.
Il getto arriva come disegnato: una cascata omogenea, violacea e salda colonna. Dalla mia bocca al foro. Qualche minima pausa, impercettibile: la slavina procede sicura fino alle ultime gocce.
E mi lascia a tenermi stretta, ai bordi di ceramica: ora con tutte e due le mani.
Il volto ancora proteso nel cerchio d’acqua.
C’è qualcuno?
In fondo al pozzo, c’è qualcuno?
Sì: ci sono io.
I miei quindici anni.
Le mie anche sporgenti.
Gli zigomi strafottenti.
Le ginocchia appuntite.
Occhi abbandonati in orbite scavate. Soli.
Ci sono io. E mi lascio lì, spostandomi verso la bilancia e togliendomi gli abiti.
Un chilo e novecentocinquanta grammi buttati là in fondo.
“Meno due!” urlo.
E nessuno risponde: i miei genitori navigano tra isole calde, cullati dai responsabili della Costa crociere.
Allora nuoto anche io, tra le stanze, ancora nuda.
Sola.
E leggerissima.

Morirò all’età di trentadue anni: lo stesso numero di chili addosso.
Fino ad allora urlerò i risultati dal bagno.


giovedì 12 aprile 2007

mAlE dI mIeLe


...la sicurezza ha un ventre tenero ma è un demonio steso fra di noi ti manca e quindi puoi non crederlo ma io non mi sentivo libero e non è dolce essere unici ma se hai un proiettile ti libero gli errori veri son più forti poi quando fan finta di esser morti lo sai copriti bene se ti senti fredda hai la pressione bassa nell'anima com'è strano il saporeche riesco a sentire male di miele male di miele male di miele male di miele e la grandezza della mia morale è proporzionale al mio successo così ho rifatto il letto al meglio sai che sembra non ci abbiam dormito mai copriti bene se ti senti fredda hai la pressione bassa nell'anima com'è strano il sapore che riesco a sentire male di miele male di miele male di miele male di miele ti do le stesse possibilità di neve al centro dell'inferno, ti va?male di miele male di miele male di miele male di miele...