venerdì 12 ottobre 2007

NoI pUfFi SiAm CoSì


C’è un grande armadio, chiuso.
Stammi ad ascoltare, Gesù Benedetto Santo e Buono.
C’è un grande armadio, chiuso.
Porca di una troia e puttana lurida e bagascia.
Queste parole mi colano fuori dai pensieri: marcate, a fuoco, dentro alle orecchie.
Ho due occhi grandi da cane.
Due occhi enormi con le ciglia lunghe.
Stammi ad ascoltare, Gesù Benedetto Santo e Buono.
Perdonali per ciò che dicono e pensano e dico e penso: porca di una troia e puttana lurida e bagascia.
Sull’anta di quel mobile serrato ci sta appiccicato uno specchio con dentro il mondo: il muro foderato spesso di carta a fiori viola e rossi, la Madonna col Bambino che tiene le braccia a conca cariche di riccioli d’oro, il comodino con l’abat-jour-finta-candela, la testata del letto matrimoniale in ferro battuto.
Seguo con gli occhi proprio il metallo a cui sono appoggiati i cuscini, fodere rosa spiegazzate e stanche di pensieri: foglie rigide e finte, a disegnare ombre sul copriletto raggrumato al centro.
Su quel grumo: io.
Dentro a me stesso un sapore forte di cuore che batte forte.
Lo sento sul palato: è gusto di paura.
Puttana di una troia.
Mi esplode il petto.
Puttana lurida.
Sento che arriva.
Bagascia.
Saliva calda che si apposta sulla lingua, sangue che pulsa contro alle tempie, polsi doloranti che scricchiolano da dentro.
Gattono fino al fondo del materasso e sto a fissarmi, dentro alla lastra che mi riflette: ho sette anni e devo star tranquillo, Gesù Benedetto Santo e Buono.
Ho sette anni e mi fisso mentre mi fisso, con quei due occhi grandi da cane.
Vorrei chiamare ma, dall’altra stanza, arrivano parole che conosco bene.
Allora mi sorrido e mi guardo rispondere al sorriso.
Poi casco ad arti all’aria, come uno scarafaggio sulla corazza: porca di una troia e puttana lurida e bagascia.
La schiuma ai lati delle labbra è spessa ed insapore.
Prima di voltare gli occhi all’indietro prego Gesù, ancora, Benedetto Santo e Buono.

Winnie the Pooh appare saltellando fin sulla mia pancia: boing-boing.
Rimbalzo di riflesso anch’ io, con una risata a scatti: finalmente da bambino.
“Cheffai?” mi chiede l’orso, con una zampa sulla maglietta rossa e l’altra a sfregazzare il mento, l’espressione stupita.
“Niente!” rispondo, “La solita crisi!”
Dragon Ball mi spunta, in modo brusco e statuario, sopra la testa.
Le braccia tese a scaldarmi di onde energetiche, le gambe larghe per cercare di non perdere equilibrio e reputazione: “Fatti coraggio!” mi urla quasi, “Fatti coraggio!” ripete abbassando testa e sguardo sul mio corpo che freme delle convulsioni rapide come scariche continue.
“Non credi di dover chiamare la tua mamma?” e la voce arriva da verso il lampadario.
E’ un pesce pagliaccio che nuota nell’aria.
“Lasciamo perdere. Adesso sta discutendo con papà. Pensi le piacerebbe essere disturbata per venir qui a guardarmi mentre mi piscio addosso?”


E poi?
E poi mia nonna.
Mia nonna compare sulla soglia: grassa e bassa, con il vestito a piccoli fiori azzurri di sempre, il grembiale a scacchi marroni legato molle alla vita.
“Matteo, Matteo! Sempre a farmi preoccupare!”
E mi rassereno, mi rassereno un casino.
Mi rassereno mentre la guardo e ne sento il profumo di colonia antica.
Mi rassereno e aspetto che si avvicini: cammina quasi volando, a dieci centimetri da terra, mentre il pavimento è carico di puffi festanti che emettono strani versi.
Vedo ognuno sforzando il collo verso il basso e rialzandolo per dire a quell’aroma di persona che mi ama che è contraccambiata.
Ma le figure di tutti sfocano e lasciano soltanto suoni e rumori, borbottii e cantilene.
Piccole canzoncine da bambini. Trullallà-trullallà.
E tac: la luce, quella grande, si accende.
Via tutto: Winnie, Dragon, Nemo, nonna…mi senti? Mi senti?

Quando le scosse si chetano mi ritrovo coricato come un vitello: le quattro zampe unite da una ipotetica fune.
Mia madre mi accarezza la fronte con una pezzuolina umida.
Io penso alle bestemmie che sanno uscire da quella bocca, lei ripete che ormai è passata e che non serve a niente aver paura.
Io dico nella testa, senza la voce, che Gesù m’ha salvato un’altra volta.
Gesù Benedetto Santo e Buono.
Poi entra papà e, ai piedi del letto, sgrana un paio di bestemmie contro la malattia che mi rende diverso.
Perdona ciò che dice e pensa, m’immagino.
Perdona lui.
E me.

martedì 9 ottobre 2007

qUaLsIaSi CoSa CeRcHi Di ScRiVeRe

di ITALO CALVINO*



Qualsiasi cosa cerchi di scrivere per esprimere la mia ammirazione per Ernesto Che Guevara, per come visse e per come morì, mi pare fuori tono. Sento la sua risata che mi risponde, piena d'ironia e di commiserazione. Io sono qui, seduto nel mio studio, tra i miei libri, nella finta pace e finta prosperità dell'Europa, dedico un breve intervallo del mio lavoro a scrivere, senza alcun rischio, d'un uomo che ha voluto assumersi tutti i rischi, che non ha accettato la finzione d'una pace provvisoria, un uomo che chiedeva a sè e agli altri il massimo spirito di sacrificio, convinto che ogni risparmio di sacrifici oggi si pagherà domani con una somma di sacrifici ancor maggiori,
Guevara è per noi questo richiamo alla gravità assoluta di tutto ciò che riguarda la rivoluzione e l'avvenire del mondo, questa critica radicale a ogni gesto che serva soltanto a mettere a posto le nostre coscienze.In questo senso egli resterà al centro delle nostre discussioni e dei nostri pensieri, così ieri da vivo come oggi da morto. E' una presenza che non chiede a noi né consensi superficiali né atti di omaggio formali; essi equivarrebbero a misconoscere, a minimizzare l'estremo rigore della sua lezione. La "linea del Che" esige molto dagli uomini; esige molto sia come metodo di lotta sia come prospettiva della società che deve nascere dalla lotta. Di fronte a tanta coerenza e coraggio nel portare alle ultime conseguenze un pensiero e una vita, mostriamoci innanzitutto modesti e sinceri, coscienti di quello che la "linea del Che" vuol dire -una trasformazione radicale non solo della società ma della "natura umana", a cominciare da noi stessi- e coscienti di che cosa ci separa dal metterla in pratica.
La discussione di Guevara con tutti quelli che lo avvicinarono, la lunga discussione che per la sua non lunga vita (discussione-azione, discussione senz'abbandonare mai il fucile), non sarà interrotta dalla morte, continuerà ad allagarsi. Anche per un interlocutore occasionale e sconosciuto (come potevo esser io, in un gruppo d'invitati, un pomeriggio del 1964, nel suo ufficio del Ministero dell'Industria) il suo incontro non poteva restare un episodio marginale. Le discussioni che contano sono quelle che che continuano poi silenziosamente, nel pensiero. Nella mia mente la discussione col Che è continuata per tutti questi anni, e più il tempo passava più lui aveva ragione.Anche adesso, morendo nel mettere in moto una lotta che non si fermerà, egli continua ad avere sempre ragione.
ottobre 1967

Che Guevara fu ucciso in Bolivia il 9 ottobre 1967, e il suddetto testo di Italo Calvino fu scritto il 15 ottobre 1967 a Parigi (dove da alcuni mesi abitava con la moglie argentina: era il giorno del suo 44° compleanno). Esso fu pubblicato in spagnolo nel gennaio 1968 sulla rivista cubana "Casa de las Americas" (in un numero speciale tutto dedicato al "Che"). Invece il testo originale integrale italiano fu pubblicato in Italia solamente 30 anni dopo, nel 1998, sul numero 1 della rivista "Che" della Fondazione Italiana Ernesto Guevara presieduta da Roberto Massari (con sede ad Aquapendente, nel Lazio).

giovedì 4 ottobre 2007

"Spara dunque, codardo"


Mia madre, il nove ottobre, comperò un carillon.
Lo appese alla testata del lettino e fece in modo, girandone la chiavetta, che le piccole api colorate della Chicco mi salutassero, tra ondeggiamenti e cantilena.
Mia madre, il nove ottobre, discostò le tende nappate e fresche, lasciando entrare una luce gialla ed artefatta che illuminò i miei piedini tozzi.
Guardò giù, appiccicando guance e naso ai vetri immacolati.
Io mossi gli arti nel vuoto, come annaspando: forse avevo fame ma forse decisi di aspettare un momento più propizio per disperarmi e urlare.
Quando la stoffa si riabbassò sulle finestre, tornò un’ombra quieta, buccia apparente d’una giornata nefasta.
Così, al posto del chiarore, un sibilo di radio inondò l’intera stanza.
Tutto il mondo.
Il soffitto un cielo e il pavimento terra, i tappetini mare e le pattine della cera zattere.
Oggetti e soprammobili come abitanti del globo, intorno: la sveglia con i numeri fluorescenti, il portafoto con il picco dell’anguille noire ricordo d’estate, la spazzola morbida sul ripiano del comò,
la petineusse su cui spiccava il rosa delle mie fasce, il contenitore del borotalco ed il piumino pizzicato sotto al coperchio, il lampadario a gocce.
Profumo di lavanda tra le lenzuola piccole ed il copriletto dorato grande.
E il sibilo divenne voce.

“…La versione più accreditata racconta come Guevara abbia ricevuto diversi spari alle gambe, sia per evitare di deturpargli il volto sia per ostacolare l'identificazione…”


Mia madre, il nove ottobre, sedette stanca con le mani in grembo.
Ascoltò il mio vagito coprire ogni altro suono e mi issò, trattenendomi come un fagotto: trofeo elevato sopra la sua testa.
Mia madre, il nove ottobre, mi allattò piangendo e al suono di una poesia salvadorena, regalatami come nenia, mi addormentai per prima.


Allora la vecchia mi disse:
“Guarda questa rosa secca
che un giorno fu incantata
dallo sfarzo della sua stagione;
il tempo che sbriciola anche altissime mura
non priverà questo libro della sua saggezza.
In questi petali secchi c’è più filosofia
di quella che può darti la tua saggia biblioteca;
essa sulle mie labbra pone la magica armonia
con cui sul fuso incarno i sogni della mia rocca.”
“Sei una fata”, le dissi. “Sono una fata”, mi disse,
“e celebro l’esultanza della primavera,
donando vita e volo a queste foglie di rosa.”
Si trasformò in una principessa profumata
e nell’aria sottile, dalle dita della fata
volò la rosa secca come una farfalla.
Rubén Darío


Poi anche lei chiuse gli occhi gonfi.
Ed il silenzio diventò preghiera.
Era il 1967.