sabato 15 dicembre 2007

lE lUcI bIaNcHe DeLlA nOtTe


Non vuole dire niente.
E’ una canzone.
Così come quel nome se collegato a quel viso, esprime sensazioni.
Ma poi.
Poi ritorna ad essere un nome soltanto, un suono senza fisionomia.
Il niente è niente.
Fino a che ti riempie.
E il tutto diventa niente.
E il niente diventa tutto.


“Sai cosa vuol dire il tempo che passa, Erika?”
Una domanda a bassa voce, mentre ti sciacquo capelli e pensieri.
“No!”
Una risposta ad alto volume, per sovrastare il rumore del getto che leva il sapone.

Tu non capisci mai il cazzo! Cristallizzata nei tuoi pochi anni che compi uguali da tutta una vita.
La bella addormentata nel suo merdosissimo bosco. C’era appena-appena il sole e tuo padre sorrideva con dei denti bianchissimi e brillanti, illuminato appena-appena da ventagli di morbidi raggi. Splendeva ogni filo d’erba, perfetto: carico di una sola goccia di rugiada incastonata appositamente da una mano divina.Ascoltami, ascoltami: era una poesia, quella mattina. Le narici pizzicate da una frescura che disseta come acqua brillante: il gusto di settembre da ingoiare appagandosi. Il resto era ordinato. Nel quadro perfetto della famiglia perfetta mancava unicamente una didascalia, il resto no: il resto c’era tutto. La macchina lucida da autolavaggio, il mio copione da madre con un grembiale profumato d’ammorbidente alla vaniglia, il rumore della porta che si apre e si richiude lasciandoci allegri-festosi-incoscienti sul palco di quel fazzoletto di giardino della nostra casetta, indipendente su tre lati. Dentro, fermi con il fiato sospeso, gli oggetti del buongiorno: le note smorzate dai muri di una radio che suonava tra le tazze semivuote del caffellatte, l’aroma di caffè sui vetri appannati, lo specchio con due gocce spruzzate dallo spazzolino. Ecco. Da lì si deve essere sparsa, l’imperfezione. Avessimo sistemato quell’angolo macchiato, asciugato il lavandino alonato a chiazze. Invece. Lo sbaglio a cui il destino s’è abbarbicato. E la sfortuna scova l’errore e, da quel punto, si dilata a macchia d’olio. Come si dice. La musica è scivolata fino a me: “Tutta mia la città, un deserto che conosco…”
E ascoltami,Erika! Il mondo si è fermato come il blocco immagine di un videoregistratore bislacco: una riga al centro dello schermo, a far tremare il fotogramma più bello. La cartella rossa con le pecorelle disegnate s’è piegata all’indietro, troppo in basso, anche per chi –come te- stava ridendo e giocando a volteggiare, con un padre che t’aveva trasformata in aeroplano. Un padre ancora felice; un padre ignaro perché, mosso dalla risata che gli chiudeva gli occhi, non ha visto il cielo diventare nero. Improvvisamente. Io sì, io l’ho guardato.E ho spalancato la bocca su quel panorama come di catastrofe: le tessere del puzzle son cadute e tutto, tutto il chiaro è diventato scuro, il bello brutto, il leggero pesante. Mentre gridavo il tuo nome e tu- a terra, burattino, mio povero burattino -a sbavare schiuma e contorcerti in mezzo all’odore forte di feci e urina. Sei morta in quel momento. Noi con te. Sei andata via con il suono della sirena. Al posto tuo una caricatura: una grottesca bambina con i polsi spezzati e gli occhi che guardano di lato. Un orsetto di pezza senza l’imbottitura.



“Il tempo che passa è quest’acqua che scende!” mi rispondo per non sentirmi sola.
“Ancora?”mi domandi senza senso, leccandomi una guancia.Come un cane.
E io ti accarezzo come fossi un cucciolo.

Non vuole dire niente.
E’ una canzone.
Così come quel nome se collegato a quel viso, esprime sensazioni.
Ma poi.
Poi ritorna ad essere un nome soltanto, un suono senza fisionomia.
Il niente è niente.
Fino a che ti riempie.
E il tutto diventa niente.
E il niente diventa tutto.