E’ solo una mattina di fine ottobre: tipica e calda.
“Come si può, madre di Dio?” Tota parla alla sorella, Jessica, senza neanche guardarla, “Come si può, Santo Iddio: manca il cibo…” e intanto sminuzza , adoperando un grosso coltello da cucina, piccoli tocchi di cipolla in pezzetti ancora più microscopici, “…manca l’acqua. Manca il respiro: persino il respiro, Santa Immacolata Maria!” e il tagliere attutisce in un tonfo sordo il colpo veloce e preciso.
Il suo urlo attraversa la stanza e sbatte contro la porta semichiusa in legno, gonfia le stoffe dei tendoni a fiori, rimbalza nelle orecchie dei bambini e dei ragazzi, inseguendo il loro gioco d’aia: nello spiazzo polveroso, alzando gambe troppo secche e nuvole rosse, calciate da piedi scalzi e lerci.
“Jessica: è il momento, Santo Iddio!”
“Chitoo!” gonfiando le vene del collo, “sta per partorire: per la Madonna!” grida, emulando.
Vestito di tessuti stropicciati dal sonno e seguito da quel gruppo fanciullo, alito infantile intorno ad un’unica palla, Chito arriva di corsa.
Tota, piegata dai colpi nel ventre, cade inginocchiata. Nel suo campo visivo rimane il piccolo Rodrigo che, con metodo, continua a schivare gambe di sedie e tavolo.
La donna l’osserva mentre simula un cross: quando gli appare, come una visione ultraterrena, mentre alza le braccia al cielo, nell’esultanza di un fantomatico quanto immaginario goal, stringe gli occhi forti perché una contrazione, lunga e dolorosa, l’avvisa che sta per partorire.
Il bambino nascerà, invece, dodici ore più tardi: “Tu mi farai dannare!” la prima frase che la madre gli regalerà, baciandolo sulle labbra.
“Tu mi farai dannare!” gli ripete ancora, urlandoglielo dalla finestra dello stesso cucinotto umido e odoroso.
Ma il bimbo non l’ascolta: scivola sul selciato grezzo e gretto e sporco, con quella sfera che pare attaccata ai piedi.
Schiva Pedro che, combattendo le ossa vecchie, spinge la bicicletta, trainando un carretto carico di stoffe e cartoni.
Rimbalza contro Veronica che, magra e con le ossa sporgenti, stringe il sacchetto della spesa, riempito solo di patate.
Subito riprende a correre, muovendo il volto sotto quei riccioli, tutti annodati come i vagabondi, e alzando le mani, in segno di arresa: non volevo, starò più attento.
E Veronica scuote la testa: “Povera donna: la farà dannare!”
Allora giù per lo stradone, fino alla linea del treno: con quel rumore di rimbalzo ad annunciarlo.
E Hugo e Paolo a sbraitare -passa, passa, passa- ma quel pallone precede solo lui e lui soltanto.
Il camioncino di latta arrugginita arriva al passo sostenuto permesso dalla discesa, proprio mentre il dribblaggio lo estranea dal mondo: gli piomba sul fianco, facendolo sussultare come un fantoccio, sbattendolo due volte. Prima a terra e poi in aria.
“Tota!” stridono le imposte, “Tuo figlio: alle rotaie!”
E Tota corre e s’inciampa e corre ancora.
Quando lo raggiunge è un bambino più piccolo dei suoi sette anni, con un vistoso taglio sul ginocchio destro. Moccio, lacrime, terra e sangue a sporcargli la bocca e il mento.
Due occhi che chiedono di non esser sgridato per l’imprudenza.
“Tu mi farai dannare!”sorride chiudendoselo tra le braccia: lui e il gioco che tiene stretto.
Nel sole che sta tramontando il bambino chiede alla madre un bacio, promettendo di diventare un grande calciatore. Di diventare qualcuno.
“Tu sei già il mio ragazzo: il mio ragazzo d’oro!” è la frase che lo accarezza.
Il pallone ancora imprigionato: le gambe penzoloni, verso casa, con la ferita sul ginocchio pulsante e calda sotto un raggio tiepido di luce argentina.
Era il 1967: Diego Armando Maratona, con il volto abbandonato sulla spalla della madre, si addormentava sognando.
“Come si può, madre di Dio?” Tota parla alla sorella, Jessica, senza neanche guardarla, “Come si può, Santo Iddio: manca il cibo…” e intanto sminuzza , adoperando un grosso coltello da cucina, piccoli tocchi di cipolla in pezzetti ancora più microscopici, “…manca l’acqua. Manca il respiro: persino il respiro, Santa Immacolata Maria!” e il tagliere attutisce in un tonfo sordo il colpo veloce e preciso.
Il suo urlo attraversa la stanza e sbatte contro la porta semichiusa in legno, gonfia le stoffe dei tendoni a fiori, rimbalza nelle orecchie dei bambini e dei ragazzi, inseguendo il loro gioco d’aia: nello spiazzo polveroso, alzando gambe troppo secche e nuvole rosse, calciate da piedi scalzi e lerci.
“Jessica: è il momento, Santo Iddio!”
“Chitoo!” gonfiando le vene del collo, “sta per partorire: per la Madonna!” grida, emulando.
Vestito di tessuti stropicciati dal sonno e seguito da quel gruppo fanciullo, alito infantile intorno ad un’unica palla, Chito arriva di corsa.
Tota, piegata dai colpi nel ventre, cade inginocchiata. Nel suo campo visivo rimane il piccolo Rodrigo che, con metodo, continua a schivare gambe di sedie e tavolo.
La donna l’osserva mentre simula un cross: quando gli appare, come una visione ultraterrena, mentre alza le braccia al cielo, nell’esultanza di un fantomatico quanto immaginario goal, stringe gli occhi forti perché una contrazione, lunga e dolorosa, l’avvisa che sta per partorire.
Il bambino nascerà, invece, dodici ore più tardi: “Tu mi farai dannare!” la prima frase che la madre gli regalerà, baciandolo sulle labbra.
“Tu mi farai dannare!” gli ripete ancora, urlandoglielo dalla finestra dello stesso cucinotto umido e odoroso.
Ma il bimbo non l’ascolta: scivola sul selciato grezzo e gretto e sporco, con quella sfera che pare attaccata ai piedi.
Schiva Pedro che, combattendo le ossa vecchie, spinge la bicicletta, trainando un carretto carico di stoffe e cartoni.
Rimbalza contro Veronica che, magra e con le ossa sporgenti, stringe il sacchetto della spesa, riempito solo di patate.
Subito riprende a correre, muovendo il volto sotto quei riccioli, tutti annodati come i vagabondi, e alzando le mani, in segno di arresa: non volevo, starò più attento.
E Veronica scuote la testa: “Povera donna: la farà dannare!”
Allora giù per lo stradone, fino alla linea del treno: con quel rumore di rimbalzo ad annunciarlo.
E Hugo e Paolo a sbraitare -passa, passa, passa- ma quel pallone precede solo lui e lui soltanto.
Il camioncino di latta arrugginita arriva al passo sostenuto permesso dalla discesa, proprio mentre il dribblaggio lo estranea dal mondo: gli piomba sul fianco, facendolo sussultare come un fantoccio, sbattendolo due volte. Prima a terra e poi in aria.
“Tota!” stridono le imposte, “Tuo figlio: alle rotaie!”
E Tota corre e s’inciampa e corre ancora.
Quando lo raggiunge è un bambino più piccolo dei suoi sette anni, con un vistoso taglio sul ginocchio destro. Moccio, lacrime, terra e sangue a sporcargli la bocca e il mento.
Due occhi che chiedono di non esser sgridato per l’imprudenza.
“Tu mi farai dannare!”sorride chiudendoselo tra le braccia: lui e il gioco che tiene stretto.
Nel sole che sta tramontando il bambino chiede alla madre un bacio, promettendo di diventare un grande calciatore. Di diventare qualcuno.
“Tu sei già il mio ragazzo: il mio ragazzo d’oro!” è la frase che lo accarezza.
Il pallone ancora imprigionato: le gambe penzoloni, verso casa, con la ferita sul ginocchio pulsante e calda sotto un raggio tiepido di luce argentina.
Era il 1967: Diego Armando Maratona, con il volto abbandonato sulla spalla della madre, si addormentava sognando.