mercoledì 21 febbraio 2007

It's Only Rock'n'roll (But I like it) -prima parte di due-


(M. Jagger/K. Richards) If I could stick my pen in my heart And spill it all over the stage Would it satisfy ya, would it slide on by ya Would you think the boy is strange? Ain't he strange? If I could win ya, if I could sing ya A love song so divine Would it be enough for your cheating heart If I broke down and cried? If I cried? I said I know it's only rock 'n roll but I like it I know it's only rock 'n roll but I like it, like it, yes, I do Oh, well, I like it, I like it, I like it I said can't you see that this old boy has been a lonely? If I could stick a knife in my heart Suicide right on stage Would it be enough for your teenage lust Would it help to ease the pain? Ease your brain? If I could dig down deep in my heart Feelings would flood on the page Would it satisfy ya, would it slide on by ya Would ya think the boy's insane? He's insane I said I know it's only rock 'n roll but I like it I said I know it's only rock'n roll but I like it, like it, yes, I do Oh, well, I like it, I like it, I like it I said can't you see that this old boy has been a lonely? And do ya think that you're the only girl around? I bet you think that you're the only woman in town I said I know it's only rock 'n roll but I like it I said I know it's only rock 'n roll but I like it I said I know it's only rock 'n roll but I like it, like it, yes, I do Oh, well, I like it, I like it. I like it...

Quando Mick Jagger decise di voltarsi e far notare quanto le sue natiche da rocker fossero ancora sode ed appetibili, giuro: Valeria mi strinse il polso fortissimo ed iniziò a tirare.
E mentre, spalleggiando come un giocatore di rugby professionista, sgomitando con quelle sue braccine ossute, tirava, bestemmiava a bassa voce. O, almeno, così mi pare d’aver sentito. Vorrei sbagliarmi.
Il palco dove l’ottuagenario, miracolosamente salvato da una femminea quanto ancora attiva carica sessuale, stava simulando ora l’amplesso impugnando il microfono, si biforcava in due corridoi che s’immettevano spavaldamente tra la folla. Quando i labbroni di Mick iniziarono ad avanzare su quello di destra verso il quale procedevamo a spintoni con Valeria da motrice, lei si voltò a guardarmi: “ti muovi?” mi urlò rabbiosa “non riesco…” “devo toccarlo…” “si, capisco…ma non riesco…”. A quel punto scosse le dita, come quando si cerca di scrollarsi lo sporco dalle mani, alzò il mento e mi regalò un “allora, vaffanculo…”. E in un attimo scomparve tra le braccia alzate di tutti, il fumo di marijuana e il sudore dei fanatici. La vidi dopo un quarto d’ora, issata da un bestione a torso nudo, mandare baci verso i suoni, muovendo la testa che così dichiarava, chiaramente, che era solo rock’n’roll ma le piaceva.

L’aspettavo sotto il palo della luce, all’uscita dello stadio. Mi venne incontro ancheggiando paurosamente: una lattina di heineken sorseggiata mentre il petto le si muoveva in rapidi singhiozzi fatti da risatine che mi regalava, da lontano.
“allora? L’hai toccato?” fece no ma fece anche spallucce, come dire non capisci un cazzo, tu, cosa importa, l’ho toccato con gli occhi, ci ho ballato con i pensieri ed ora occhi e pensieri, sono ancora in festa. Così la guardai mentre si sistemava la maglietta che aveva tirato su-su, fermata dall’impetuoso seno: due occhi quasi giapponesi, gli zigomi alti, i capelli mossi-cavaturaccioli sulle spalle, i fianchi stretti, le gambe lunghissime lunghissime lunghissime. Una ragazzina.
Poi si avvicinò e, proprio quella vicinanza, la tradì in un modo grottesco che ridimensiona l’eterno.
Quel giorno era il suo compleanno: Valeria compiva quarantadue anni. E li compiva tutti.
“Pensi che dovrei telefonare a Beatrice? Voglio dire…credi sia troppo tardi?” mi strinsi nelle spalle, mentre camminavamo lente verso il parcheggio. Ma la scoprii già piegata con la testa sul telefonino armeggiare per accendere una sigaretta, gli occhi socchiusi per sentir meglio la risposta, dall’altra parte: “Bea! Tutto bene, amore?” e via una sequenza di pucci-pucci, cippi-cippi, “Si, Bea…è stato bello-bellissimo…ora rientro a casa. Tu dormi pure che la mamma torna subito”.
Riattaccato il telefono piombammo in un silenzio disturbato solo dai passi” Ora Bea andrà a nanna tranquilla…” mi sorrise,
“e Silvia?” chiesi,
“Già dormiva…” rispose,
“e Matteo?”chiesi,
“Già dormiva…” rispose,
“e Giulio?” chiesi,
“Già dormiva…” rispose.
E la macchina? Già usciva dalla sua postazione in retromarcia. Noi due dentro. Di nuovo in silenzio.

Quando Donato mi chiamò sul lavoro dicendo di volermi e dovermi assolutamente parlare mi venne un sospetto. Immaginai che ci fosse qualcosa che non andava un po’ più grosso, rispetto alle cose che già non erano andate altre volte. Ci mettemmo d’accordo per incontrarci al bar della stazione, quella piccola.
Una piazza assolata e desolata, dalla quale, da ogni punto ti sorprende lo scampanellio che avvisa e informa dell’esistenza dei treni, così che ti senti un po’ di agitazione addosso e ascolti le voci metalliche scandire destinazioni, tempi e ritardi.
Lui arriva con la seicento azzurrina, quella che ha comperato dal tabaccaio sotto casa che voleva farsela fuori perché lo stato è un cattivo stato. Ma Donato ne aveva bisogno e, oltre alla necessità, teneva in tasca solo trecento euro. Erano bastati.
Scosta i ciuffi albini che gli coprono quasi gli occhi e scodinzola con le dita un saluto imbarazzato fin da subito. Profuma di giubbotto di pelle e sigarette fatte a mano.
Andiamo a sederci al tavolino del bar “Snoopy”, fatto di un metallo che assorbe il calore così che mi viene ancora più caldo e, quando guardo il luccichio di lacrime che sta iniziando a spingere dai suoi occhi rossi, mi viene quasi da svenire.

Voglio fare mente locale:
Beatrice assomiglia a Valeria,
Silvia a Donato,
Matteo a Valeria,
Giulio a nessuno ma sorride come Valeria e si arrabbia come Donato.

“Tina…mi devi aiutare…me ne voglio andare”
“Lo so, Dona, lo so…”
“E’ un anno che ci stiamo uccidendo…”
“Lo so, Dona, lo so…”
“Stalle vicina, Tina…aiutala…”
Vorrei dirtelo, Donato, è un anno che vorrei dirtelo. Io posso accompagnare Valeria nella sua adolescenza tardiva, farla svagare, ascoltare i tuoi sensi di colpa, ascoltare i suoi.
Posso vedervi mentre vi consumate, mentre rinfacciate a turno difetti che –anni fa- vi sembravano pregi. Posso osservare impotente la vostra frustrazione, la paura, il rancore, la rabbia.
Null’altro, Donato, null’altro. Che consigli vi aspettate da me che non ho figli che non sono sposata che vivo con mia madre che non so riconoscere i compromessi dalle scelte ma che forse vivo di un unico grande equivoco? Quali pareri? Quali opinioni?
Due giorni dopo, allo stesso tavolino, Valeria, con gli occhi bagnati presi in prestito dal padre dei suoi figli, fa strisciare un foglio sul metallo che non è più caldo e intrattabile come l’altra volta.
Test di gravidanza.
E inizia a piovere.
Positivo.
Ordiniamo una cedrata e un chinotto.
Bibite così le hanno solo in questo posto.

martedì 13 febbraio 2007

i baci sulle Mani

Ciao, come stai?
Ti telefono poche volte perché il tuo silenzio al di là del filo mi imbarazza e, la paura di farti male, con le mie pause, blocca le dita che si chiudono strette nei palmi delle mani, ciondoloni lungo i fianchi. Divento un palo, di fronte al telefono. Lascio passare qualche minuto buono, poi mi volto veloce e di solito corro in strada, dove c’è Diego che mi aspetta, per andare a fare due tiri al pallone.
Tutti i fine settimana o, almeno, quasi tutti. E il gesto rasserena la mia coscienza, allevia il peso del rimorso, pulisce un po’ lo sporco dell’anima.
Tu, lo sporco, me lo lavavi via da magliette e jeans, quando tornavo dalle mie incursioni pomeridiane, dai miei essere sceriffo in cortile, distruggendomi gli abiti a combattere con gli indiani: “Vame a pje al savun”…e io correvo e tornavo con le mani cariche di scaglie profumate di Marsiglia e tranquillità del precena.
Io ti vedo: piegata con i riccioli scomposti sulla fronte a fregar le stoffe e a fregare me di sorpresa quando, con un cenno del mento, indicavi il vassoio sulla mensola dell’entrata. E, sopra ad un fazzoletto a scacchi bianchi e marroni, il pane a fette più buono del mondo.
Non l’ho mangiata più, una cosa così.
Dopo poco tempo, neanche tu saresti stata più capace di farla.
E io mi ostinavo a dire alla mamma che ti bastava alzarti dalla sedia su cui stavi a fissare il vuoto, prendere le cosette che servivano e preparare le cosette che volevo mangiare. Ma la mamma scuoteva la testa, mentre le si riempivano gli occhi di lacrime. E tu continuavi a guardare il vuoto.
Dove stavi andando? Perché non ho saputo stringerti forte le dita su cui quando ero piccolo posizionavo bacetti lumacosi per riceverne in cambio i tuoi sorrisi grandi? Rivoglio quel tempo. Rivoglio il controllo. Rivoglio la possibilità di mentirmi, fingendo di poterti trattenere. O seguire.

Allora, corro, nonna.
Attraverso Torino con il tram e vengo lì al pensionato dove osservi lo stesso vuoto.
Ed entro in stanza e profumi ancora un po’ di te, sotto quell’odore di vecchio che mi fa paura.
E ti racconto di quel pane, nonna: prendevi una biovetta e la tagliavi in due e poi la bagnavi e poi ci aggiungevi dei fiocchi di burro e una spolverata di zucchero.
E piango come un pazzo, così forte che devo mettere la testa sulle tue ginocchia, per attutire i singhiozzi.
Ma il prossimo anno sono maggiorenne e prendo la patente e vengo, nonna, e andiamo in centro e poi a casa, a far merenda.
Nonna.
Allora, con un gesto lento, ti volti e apri il cassetto del tuo comodino e ne tiri fuori un panino vecchio e secco: “Anduma?”
Si nonna, andiamo.
Quando?
Il prossimo anno, nonna, il prossimo anno.






lunedì 12 febbraio 2007

IL SIGNORE DELLE ANSIE



Oggi
al posto di inforcare la bici
per scappare lontano
inforca il batticuore
uccidi l'extrasistole
ammazza il vigliacco che tenta
prova
e tenta ancora
di assassinarti per primo.
Quando sarà caduto
metteremo su un disco.
Insieme si potrà ballare.

(Alessandro)