Oggi, amica mia, oggi come stai?
Oggi non stai bene, ti è presa la stanchezza e la città ti segue a ruota. I tuoi umori influenzano Torino: è la città ad essere valeriopatica non tu, Valeria, a soffrire degli sbalzi metereologici.
Ti è presa la stanchezza che viaggia sempre a braccetto della tua personale malinconia e, oggi, non hai più la sindrome di down. “Mongola”. Me lo dici, nelle giornate come questa, quando arrivo al mattino per portarti a “fare le tue cose”, come le chiami tu. Me lo dici così piano e così mestamente e talmente a labbra strette che -io- riesco ad indovinarlo unicamente dall’espressione degli occhi: li stringi a fessura, in mezzo a quel faccione che lasci cadere di lato come un orsetto di pezza regalato almeno quindici natali fa.
“Mongola”. E in quella parola c’è la tua stanchezza, il disprezzo degli altri, gli sguardi che ti pesano addosso e ti seguono con impudenza credendo di non essere visti a loro volta, e paroline dette sotto voce, intervallate da risatine a cui rispondono altre risate, a cui seguono parole più ad alta voce perché il gruppo rende spavaldi, e l’ilarità suscitata da forza alla cattiveria. Te lo dicevano dall’asilo, quando tua mamma ti allacciava i bottoncini a cuoricino del grembiulino turchese fino all’ultimo, vicino al colletto bianco e tu le sorridevi ma, oltre la sua spalla, c’era Lauretta con a fianco Paola.
E loro, il grembiulino, sapevano abbottonarlo senza bisogno d’aiuto. Ora te lo dici da sola e lo comunichi a me: mi sento come mi vedono.
Hai già il cappotto e stai poggiata allo stipite della porta mentre salgo l’ultima rampa di scale: sposti la frangetta con il dorso della mano, adoperando un movimento lento e ben studiato e lasci che un filo di bavetta scenda dall’angolo della bocca, luccicando fino alla sciarpa rosa annodata malamente. Mi avvicino e ti asciugo le labbra con il fazzoletto che ho già mano: mongola lo hai già detto al citofono, usando la voce come campanello d’allarme, e io sapevo.
Ancora più lentamente indichi la carrozzella parcheggiata a fianco dello zerbino e scuoti il capo. Vuoi uscire seduta, le gambe non ti reggono. Dovrei provare a convincerti che è una balla, che sai camminare meglio di me e che daresti punti ad Heater Parisi, facendo la spaccata. Ma chi te lo fa fare, adesso? Adesso che stai così da schifo doverti anche sorbire le mie prediche, da pedante educatore professionale. Allora siediti, Valeria, siediti che usciamo. Il tempo di due telefonate, Valeria. E prendo il cellulare e scimmiotto il tono alla Silvio Berlusconi mentre compongo il numero di tua madre, scandendolo ad alta voce. Tutto bene, mamma di Valeria, stiamo scendendo. E spingo con una mano l’odiato marchingegno verso l’ascensore. Sì, mamma di Valeria, è un po’ giù. E le ruote s’incastrano stridendo gomma contro gomma sul pavimento della cabinetta sempre troppo stretta. Sì, cercheremo di distrarci un po’.
E faccio un inchino perché l’impresa mi è riuscita e stiamo scendendo. Sì,sì: magari saltiamo la fisioterapia.
La seconda telefonata è per il fisioterapista che, questa mattina, non incontreremo.
Siamo fuori, Valeria, e ti spingo e ti parlo del tempo, perché fa un freddo cane e le strade hanno una nebbiolina iridescente che lascia filtrare dei raggi lunghi e pigri di sole opaco. Allora corro un pochino, per scaldarmi e ti tiro su la sciarpa, per scaldarti: i portici di via Roma ci fanno scivolare veloci. Le signore eleganti riflesse nelle vetrine dei negozi le schiviamo elegantemente. I ragazzi che han bigiato la scuola li bigiamo con gli slalom. Faccio la buffona per rallegrarti: mi affaccio alla tua spalla e ti avverto che non garantisco sulla tua incolumità alla fine della passeggiata. Ma tu non ti rallegri. Arriviamo davanti alla stazione e stiamo ferme. Un monumento alla passività. Ci muoviamo verso i treni lente come i tuoi movimenti di rassegnazione. Un bar con le vetrate, un tavolino piccolo carico di cioccolata calda e tu che, trasgredendo qualsiasi regola del medico, assapori ogni cucchiaino come fosse il migliore del mondo e mi guardi sospettosa per il mio insolito mutismo.
Non te lo dovrei dire, Valeria. Non te lo dovrei dire ma te lo racconto. Ti racconto che anche a me oggi ha preso la tristezza, sai? Ti racconto che, ieri sera, ho attraversato il centro andando ad una velocità assolutamente sostenuta e la strada inghiottiva la mia piccola automobilina da essere mediocre nel buio e i lampioni schizzavano le luci sul parabrezza e io acceleravo. Poi ti dico che anche i lampioni hanno smesso di essere così luminosi e sono entrata in un cortiletto di periferia e sembrava che solo lì ci fosse vento, perché le lenzuola stese ad asciugare sbattevano e sembrava che cantassero talmente sbattevano, Valeria. E io ho parcheggiato sotto un platano mezzo storto, con il batticuore e ho lasciato la portiera semiaperta e sono corsa a suonare al suo citofono perché mi avevano detto che era tornato e, sapevo, mi avrebbe abbracciata e dati mille baci. Sai, Valeria, mi sento tanto stanca. Ho passato la notte in macchina, con la testa sul volante e gli occhi chiusi ma così chiusi da farmi bruciare il naso.
Perché io ho suonato e lui ha risposto e quando dietro, una vocina piccola, da donnina giovane, ha chiesto chi fosse, ha spiegato: “solo una collega passata per un saluto”.
Quella parola, Valeria, quella parola. Solo.
Hai aperto bene gli occhi e mi hai guardata piangere, amica mia. La tazza di cioccolata ancora semipiena davanti al naso, il cucchiaino sospeso a mezz’aria.
Poi ti sei alzata, mi hai preso le mani e hai fatto alzare anche me. Io singhiozzavo come una bambina capricciosa e tu mi hai spinta a sedere sulla tua sedia. Hai preso un fazzoletto dalla tasca e mi hai asciugato le guance. Ad un mio tentativo di rimettermi in piedi hai risposto scrollando le spalle e, facendomi una carezza tutta storta che tagliava in obliquo il viso, hai sorriso : “mongola”.
Hai ragione, Valeria, ho la tristezza dentro e anche io non riesco a sentirmi in nient’altro modo da come mi vedono.
Così, piano e piano ancora, siamo uscite dal bar, dalla stazione e dai nostri ruoli e sull’acciottolato della Torino antica mi hai spinta sbuffando fino a che il sole non si è fermato più forte sul tuo portone.
Oggi non stai bene, ti è presa la stanchezza e la città ti segue a ruota. I tuoi umori influenzano Torino: è la città ad essere valeriopatica non tu, Valeria, a soffrire degli sbalzi metereologici.
Ti è presa la stanchezza che viaggia sempre a braccetto della tua personale malinconia e, oggi, non hai più la sindrome di down. “Mongola”. Me lo dici, nelle giornate come questa, quando arrivo al mattino per portarti a “fare le tue cose”, come le chiami tu. Me lo dici così piano e così mestamente e talmente a labbra strette che -io- riesco ad indovinarlo unicamente dall’espressione degli occhi: li stringi a fessura, in mezzo a quel faccione che lasci cadere di lato come un orsetto di pezza regalato almeno quindici natali fa.
“Mongola”. E in quella parola c’è la tua stanchezza, il disprezzo degli altri, gli sguardi che ti pesano addosso e ti seguono con impudenza credendo di non essere visti a loro volta, e paroline dette sotto voce, intervallate da risatine a cui rispondono altre risate, a cui seguono parole più ad alta voce perché il gruppo rende spavaldi, e l’ilarità suscitata da forza alla cattiveria. Te lo dicevano dall’asilo, quando tua mamma ti allacciava i bottoncini a cuoricino del grembiulino turchese fino all’ultimo, vicino al colletto bianco e tu le sorridevi ma, oltre la sua spalla, c’era Lauretta con a fianco Paola.
E loro, il grembiulino, sapevano abbottonarlo senza bisogno d’aiuto. Ora te lo dici da sola e lo comunichi a me: mi sento come mi vedono.
Hai già il cappotto e stai poggiata allo stipite della porta mentre salgo l’ultima rampa di scale: sposti la frangetta con il dorso della mano, adoperando un movimento lento e ben studiato e lasci che un filo di bavetta scenda dall’angolo della bocca, luccicando fino alla sciarpa rosa annodata malamente. Mi avvicino e ti asciugo le labbra con il fazzoletto che ho già mano: mongola lo hai già detto al citofono, usando la voce come campanello d’allarme, e io sapevo.
Ancora più lentamente indichi la carrozzella parcheggiata a fianco dello zerbino e scuoti il capo. Vuoi uscire seduta, le gambe non ti reggono. Dovrei provare a convincerti che è una balla, che sai camminare meglio di me e che daresti punti ad Heater Parisi, facendo la spaccata. Ma chi te lo fa fare, adesso? Adesso che stai così da schifo doverti anche sorbire le mie prediche, da pedante educatore professionale. Allora siediti, Valeria, siediti che usciamo. Il tempo di due telefonate, Valeria. E prendo il cellulare e scimmiotto il tono alla Silvio Berlusconi mentre compongo il numero di tua madre, scandendolo ad alta voce. Tutto bene, mamma di Valeria, stiamo scendendo. E spingo con una mano l’odiato marchingegno verso l’ascensore. Sì, mamma di Valeria, è un po’ giù. E le ruote s’incastrano stridendo gomma contro gomma sul pavimento della cabinetta sempre troppo stretta. Sì, cercheremo di distrarci un po’.
E faccio un inchino perché l’impresa mi è riuscita e stiamo scendendo. Sì,sì: magari saltiamo la fisioterapia.
La seconda telefonata è per il fisioterapista che, questa mattina, non incontreremo.
Siamo fuori, Valeria, e ti spingo e ti parlo del tempo, perché fa un freddo cane e le strade hanno una nebbiolina iridescente che lascia filtrare dei raggi lunghi e pigri di sole opaco. Allora corro un pochino, per scaldarmi e ti tiro su la sciarpa, per scaldarti: i portici di via Roma ci fanno scivolare veloci. Le signore eleganti riflesse nelle vetrine dei negozi le schiviamo elegantemente. I ragazzi che han bigiato la scuola li bigiamo con gli slalom. Faccio la buffona per rallegrarti: mi affaccio alla tua spalla e ti avverto che non garantisco sulla tua incolumità alla fine della passeggiata. Ma tu non ti rallegri. Arriviamo davanti alla stazione e stiamo ferme. Un monumento alla passività. Ci muoviamo verso i treni lente come i tuoi movimenti di rassegnazione. Un bar con le vetrate, un tavolino piccolo carico di cioccolata calda e tu che, trasgredendo qualsiasi regola del medico, assapori ogni cucchiaino come fosse il migliore del mondo e mi guardi sospettosa per il mio insolito mutismo.
Non te lo dovrei dire, Valeria. Non te lo dovrei dire ma te lo racconto. Ti racconto che anche a me oggi ha preso la tristezza, sai? Ti racconto che, ieri sera, ho attraversato il centro andando ad una velocità assolutamente sostenuta e la strada inghiottiva la mia piccola automobilina da essere mediocre nel buio e i lampioni schizzavano le luci sul parabrezza e io acceleravo. Poi ti dico che anche i lampioni hanno smesso di essere così luminosi e sono entrata in un cortiletto di periferia e sembrava che solo lì ci fosse vento, perché le lenzuola stese ad asciugare sbattevano e sembrava che cantassero talmente sbattevano, Valeria. E io ho parcheggiato sotto un platano mezzo storto, con il batticuore e ho lasciato la portiera semiaperta e sono corsa a suonare al suo citofono perché mi avevano detto che era tornato e, sapevo, mi avrebbe abbracciata e dati mille baci. Sai, Valeria, mi sento tanto stanca. Ho passato la notte in macchina, con la testa sul volante e gli occhi chiusi ma così chiusi da farmi bruciare il naso.
Perché io ho suonato e lui ha risposto e quando dietro, una vocina piccola, da donnina giovane, ha chiesto chi fosse, ha spiegato: “solo una collega passata per un saluto”.
Quella parola, Valeria, quella parola. Solo.
Hai aperto bene gli occhi e mi hai guardata piangere, amica mia. La tazza di cioccolata ancora semipiena davanti al naso, il cucchiaino sospeso a mezz’aria.
Poi ti sei alzata, mi hai preso le mani e hai fatto alzare anche me. Io singhiozzavo come una bambina capricciosa e tu mi hai spinta a sedere sulla tua sedia. Hai preso un fazzoletto dalla tasca e mi hai asciugato le guance. Ad un mio tentativo di rimettermi in piedi hai risposto scrollando le spalle e, facendomi una carezza tutta storta che tagliava in obliquo il viso, hai sorriso : “mongola”.
Hai ragione, Valeria, ho la tristezza dentro e anche io non riesco a sentirmi in nient’altro modo da come mi vedono.
Così, piano e piano ancora, siamo uscite dal bar, dalla stazione e dai nostri ruoli e sull’acciottolato della Torino antica mi hai spinta sbuffando fino a che il sole non si è fermato più forte sul tuo portone.
8 commenti:
Ciao cara jean, avevo già letto questa tua, nell'altra casa, ma è sempre toccante rileggerla...
ti lascio un abbraccio forte...augurandoti una settimana serena e tranquilla, accopagnata da tanti sorrisi....il primo è il mio :-)
Un bacio, ciao Tina
...Tina: gran bel sorriso...logicamente ricambiato!
Commento poco ma ci sono sempre, eh?
Dove prendere la forza per continuare? Dovremmo avere tutti una Valeria vicino a noi....
Mi ricordo un mercato e una via periferica.
Occhiate indagatrici e giudicanti per chi occhi non ne aveva più.
Ricordo che noi si passava oltre.
Era difficile subire gli sguardi. Altrettanto difficile immaginare di potercela fare per sempre.
V.
...V.:ricordo un divano e dei pensieri come cuscini.
la mia paura di guardarlo e la tua forza che mi spingeva a parlargli.
continueremo a farcela.
...Maurone: valgo meno di Valeria ma, se vuoi, ti spingo io!
Beh, per una che si è persa il cervello a pezzi non c'è male...:-)) Bellissiomo post, lascia senza parole...un abbraccio ed un sorriso. Testaecuore.
...testaecuore: un grazie fatto di baci!
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