“Lo sai, Tina…torneranno in Italia!”, la voce mi trafora il timpano, urlata fuori dalla cornetta,
“Chi…?”, chiedo ingenua,
“Come chi!?”, rispondi scocciatissima,
“…ma tu…tu hai deciso cosa fare?”, azzardo,
“ Riguardo il concerto?”.
Interrompo la comunicazione.
Dopo pochi istanti il telefono squilla nuovamente:
“Scusa, Tina…cercavo di sorridere!”,
“Ti scuso, Valeria, ti scuso!”
Scatto. State fermi. Sorridete. Sorridete, se potete.
Interno casa. Soggiorno. Qualche gioco sparpagliato ai piedi di tutti. L’amica di sempre che prende la mira, la vostra famiglia marito/moglie/quattrofigli che si stringe nel formato 10-15.
Valeria sorregge il mento di Beatrice con una mano, con l’altra le strofina via una macchia di cioccolato. Silvia abbraccia una gamba del padre e, nel farlo, sposta a calci Giulio che vuole baciarla. Matteo, il più piccolo, osserva un punto lontano, oltre l’obiettivo: lo guarda e sorride.
Hai una borsa grigia dentro alla quale hai buttato due cose.
La camicia da notte te l’ho prestata io: sul davanti ha ricamato un coniglio che lascia delle lunghe tracce azzurre, segni degli sci che porta ai piedi. Era l’unica che potesse andare bene in questa stagione: l’hai guardata storcendo il naso poi l’hai appallottolata dentro il borsone, come fosse da buttare.
Sto dritta e ferma, sul tuo tappetino blu del bagno: ti guardo mentre, contro la luce del mattino, la spazzola scende a colpi decisi, tirando e liberando ricci vaporosi e ballerini.
Ti guardo in questo silenzio assurdo che, a casa tua, è difficile ricordare d’avere mai ascoltato.
I due bambini più grandi a scuola, i due più piccoli a dormire dai nonni.
Ti guardo ed ingoio un profumo forte, misto di borotalco e conegrina. Allora tossisco e il rumore è così improvviso che giri la testa di scatto e m’immagino di vederti gli occhi pieni di pianto. Invece no: li abbassi asciutti e mi passi vicina, spingendomi per un braccio: “Andiamo, è tardi”.
Io non lo so come starei se stessi andando ad abortire.
Tu stai così: zitta.
Donato è uscito di casa con una piccola valigia, venti giorni fa.
Beatrice si è chiusa in stanza e ha pianto con la testa inchiodata nel cuscino, per quaranta minuti.
Ha smesso quando Laura le ha telefonato per raccontarle che, una loro amica, anche lei tredicenne, si era fidanzata con il figlio della panettiera.
Silvia ha sputato tutta la minestrina che le faceva da cena nel piatto del fratellino ed è rimasta a guardarlo mentre lui urlava “Buon lavoro, papà”, dietro la porta.
Matteo ha battuto le mani al suo superman che è volato giù dal seggiolone.
Hai lasciato che tua madre lavasse i piatti e risistemasse la stanza e ti aiutasse a far addormentare tutti e ti dicesse “se hai bisogno chiama!”, perché abita nell’appartamento a fianco. Hai lasciato che ti sorridesse benevola. Hai lasciato che uscisse. Poi hai preso l’album delle fotografie del vostro matrimonio e hai iniziato a sfogliarlo, zitta. Come ora.
Io non lo so come starei se stessi entrando nell’ospedale.
Se stessi dettando il mio nome all’impiegata.
Se stessi chiedendo quando potrò uscire.
Se stessi ringraziando la mia amica perché, quando uscirò, tra circa tre ore, lei sarà qui ad aspettarmi.
Io non lo so come starei.
E non lo sai neanche tu.
La caposala ti ha vista entrare nel reparto e ti ha indicato la stanza: 372.
Guarda, Valeria, la combinazione: Beatrice è nata il 3 luglio, Silvia il 7. Giulio il 2.
Ma non ti è bastato: ti sei spogliata e hai indossato il camice azzurrino per prepararti all’intervento.
Coricata sulla barella: “Posso camminare!”, hai detto all’infermiera, “E’ la prassi, stia giù!”, ti ha zittita lei.
Nella sala dalle luci tonde, sul lettino, hai fissato la bocca dell’anestesista mentre pronunciava il tuo cognome e poi giù, sul collo, un ciondolo d’argento con il numero uno. Hai aperto le gambe e chiuso stretti gli occhi.
Matteo era nato diciotto mesi prima: quindici minuti di dolore.
Una stretta lancinante al fondo dell’addome che ha fatto rimbalzare il tuo grido sulle pareti del corridoio del reparto maternità.
Donato ti stringeva la mano e tu ripetevi che, quella volta, non ce l’avresti fatta.
Donato ti stringeva la mano e tu ripetevi che, quella volta, era più forte delle altre.
Invece: quindici minuti lancinanti e già piangeva sul tuo seno.
Era il primo gennaio.
Hai riaperto gli occhi e chiuso strette le gambe: “Non lo faccio più. Lo tengo.”
Mi sei venuta incontro e sembravi una bambina.
Ti ho dato un bacio sulla fronte, poi ti ho abbracciata stretta.
Il tour dei Rolling Stones è stato sospeso: Keith Richard, dopo essersi arrampicato su d’un banano, è scivolato schiantandosi a terra e rompendosi qualche costola.
Michele. Michele è nato l’altro ieri.